IL BANDITO – 3. Un diòvu nella notte
di Matteo Speroni
Altroché pollastro, pollo, o fesso. È vero, da piccolo Sante era un bambino buono e socievole. Ma mite proprio no. Da quando aveva perso il padre, a soli sette anni, qualcosa si agitava dentro di lui. Aveva cominciato a lavorare come garzone muratore, per portare a casa qualche soldo, ma gli ordini dei suoi “padroni” aizzavano il diòvu, il “diavolo” che aveva nello stomaco – come aveva detto a un amico dopo che un “capo” gli aveva urlato in faccia. Allora aveva cominciato a rubare, nient’altro che mattonelle, alla stazione, ma a tredici anni era stato sorpreso dalle guardie ed era finito in prigione. Dietro le sbarre Sante si era comportato bene ma, dentro, il suo diòvu impazziva, ruggiva. Appena tornato libero, non era più il bambino gentile di un tempo. Taciturno, ma imprevedibile e iracondo. Tra la gente di Novi il suo nome usciva dalle bocche non più che sussurrato, soprattutto dopo il 14 luglio del 1922. Quel giorno, Sante è a Tortona con altri tre. Aspettano un cassiere che porta il denaro della banca in bicicletta. I rapinatori avevano studiato i ruoli, provato le mosse, come in un gioco teatrale. Ma la realtà è un’altra faccenda, in scena entra un estraneo, un personaggio inaspettato: la paura. L’agguato è rapido, ma il cassiere si spaventa, reagisce, nella concitazione viene fulminato da un colpo di pistola. Da quel momento Sante non può più tornare in paese, a Novi, anzi non può più farsi vedere in alcun paese. Si rifugia nella boscaglia, la Frascheta. Quando le guardie battono le campagne per stanarlo, lui si arrampica sugli alberi, si imbosca tra le frasche. Vive come un primitivo nella macchia. Giornate fosche e notti umide, una dopo l’altra. A Sante manca la sua Novi, non ha l’animo dell’eremita. Così, ogni tanto, quando il cielo è senza luna, il lupo della Frascheta si avventura in paese, a Novi, va a visitare le sue strade. Ma Sante non è solo un vagabondo malinconico. Sante è un bandito. Durante le passeggiate notturne progetta furti e rapine, il paese diventa territorio di caccia per prossimi colpi. E la solitudine nutre anche pensieri ossessivi, Sante fantastica di incontrare nel buio chi lui crede sia una spia o chi lo ha trattato male quando era bambino o – magari! – quel capoccia che gli urlò in faccia e svegliò il diòvu. Una notte, mentre Sante si aggira come uno spettro nel paese immobile, uno strano sentimento gli cresce nello stomaco, proprio lì, dove sta il diòvu: una ferocia soffice, fredda e composta. Una specie di fame. Dopo avere svoltato un angolo, scorge una figura scura. Davanti a lui un uomo avvolto in un cappotto cammina a passo lento. Indossa scarpe lucide e porta un cappello, sembra un Borsalino. «Un uomo elegante» pensa Pollastro «non ha le tasche vuote.» Sante infila la mano nella sua, di tasca, e anche questa non è vuota, come sempre c’è la calibro 6. La estrae, raggiunge l’uomo, gli appoggia la canna della pistola sulla schiena. «Dammi tutto, i soldi e anche il Borsalino.» L’uomo si volta con calma, intercetta lo sguardo spiritato di Sante e scandisce tre parole: «Sai chi sono?». Sante è sorpreso, spiazzato. Esita, poi ribatte: «Ha importanza?». L’uomo, flemmatico, soggiunge: «Tu mi conosci. Tutti mi conoscono qui. Sono Costante. Sono il Gira». Sante fa un passo indietro e lo osserva. «Il Gira, il Gira…», ripete tra sé e sé, ipnotizzato. Poi si scuote: «Tu invece questa notte non mi hai visto. Hai incontrato un fantasma». Costante accenna a un sorriso. «Un fantasma con il cappello.» Si toglie il Borsalino, lo calza sulla testa di Sante, si volta e, senza fretta, si allontana nell’oscurità.
E LA STORIA CONTINUA... ANCHE GRAZIE AI VOSTRI SUGGERIMENTI!
QUI IL LINK A IL BANDITO – 1. L'incipit: http://www.strastorie.it/2016/11/il-bandito-1-lincipit.html IL BANDITO – 2. Né santo né pollastro: http://www.strastorie.it/2016/11/il-bandito-2-ne-santo-ne-pollastro.html
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Un progetto di Valeria Ravera
Con Gino Cervi e Matteo Speroni
Sul web (qui e su www.facebook.com/strastorie) e al Laboratorio Formentini #BCM16 #StraStorie
di Matteo Speroni
Altroché pollastro, pollo, o fesso. È vero, da piccolo Sante era un bambino buono e socievole. Ma mite proprio no. Da quando aveva perso il padre, a soli sette anni, qualcosa si agitava dentro di lui. Aveva cominciato a lavorare come garzone muratore, per portare a casa qualche soldo, ma gli ordini dei suoi “padroni” aizzavano il diòvu, il “diavolo” che aveva nello stomaco – come aveva detto a un amico dopo che un “capo” gli aveva urlato in faccia. Allora aveva cominciato a rubare, nient’altro che mattonelle, alla stazione, ma a tredici anni era stato sorpreso dalle guardie ed era finito in prigione. Dietro le sbarre Sante si era comportato bene ma, dentro, il suo diòvu impazziva, ruggiva. Appena tornato libero, non era più il bambino gentile di un tempo. Taciturno, ma imprevedibile e iracondo. Tra la gente di Novi il suo nome usciva dalle bocche non più che sussurrato, soprattutto dopo il 14 luglio del 1922. Quel giorno, Sante è a Tortona con altri tre. Aspettano un cassiere che porta il denaro della banca in bicicletta. I rapinatori avevano studiato i ruoli, provato le mosse, come in un gioco teatrale. Ma la realtà è un’altra faccenda, in scena entra un estraneo, un personaggio inaspettato: la paura. L’agguato è rapido, ma il cassiere si spaventa, reagisce, nella concitazione viene fulminato da un colpo di pistola. Da quel momento Sante non può più tornare in paese, a Novi, anzi non può più farsi vedere in alcun paese. Si rifugia nella boscaglia, la Frascheta. Quando le guardie battono le campagne per stanarlo, lui si arrampica sugli alberi, si imbosca tra le frasche. Vive come un primitivo nella macchia. Giornate fosche e notti umide, una dopo l’altra. A Sante manca la sua Novi, non ha l’animo dell’eremita. Così, ogni tanto, quando il cielo è senza luna, il lupo della Frascheta si avventura in paese, a Novi, va a visitare le sue strade. Ma Sante non è solo un vagabondo malinconico. Sante è un bandito. Durante le passeggiate notturne progetta furti e rapine, il paese diventa territorio di caccia per prossimi colpi. E la solitudine nutre anche pensieri ossessivi, Sante fantastica di incontrare nel buio chi lui crede sia una spia o chi lo ha trattato male quando era bambino o – magari! – quel capoccia che gli urlò in faccia e svegliò il diòvu. Una notte, mentre Sante si aggira come uno spettro nel paese immobile, uno strano sentimento gli cresce nello stomaco, proprio lì, dove sta il diòvu: una ferocia soffice, fredda e composta. Una specie di fame. Dopo avere svoltato un angolo, scorge una figura scura. Davanti a lui un uomo avvolto in un cappotto cammina a passo lento. Indossa scarpe lucide e porta un cappello, sembra un Borsalino. «Un uomo elegante» pensa Pollastro «non ha le tasche vuote.» Sante infila la mano nella sua, di tasca, e anche questa non è vuota, come sempre c’è la calibro 6. La estrae, raggiunge l’uomo, gli appoggia la canna della pistola sulla schiena. «Dammi tutto, i soldi e anche il Borsalino.» L’uomo si volta con calma, intercetta lo sguardo spiritato di Sante e scandisce tre parole: «Sai chi sono?». Sante è sorpreso, spiazzato. Esita, poi ribatte: «Ha importanza?». L’uomo, flemmatico, soggiunge: «Tu mi conosci. Tutti mi conoscono qui. Sono Costante. Sono il Gira». Sante fa un passo indietro e lo osserva. «Il Gira, il Gira…», ripete tra sé e sé, ipnotizzato. Poi si scuote: «Tu invece questa notte non mi hai visto. Hai incontrato un fantasma». Costante accenna a un sorriso. «Un fantasma con il cappello.» Si toglie il Borsalino, lo calza sulla testa di Sante, si volta e, senza fretta, si allontana nell’oscurità.
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