mercoledì 12 luglio 2023

I capitoli 9 e 10 di Andrea Ferrari e Francesco Gallone

Capitolo 9.  Tremors

 

"Milano e la Cosa" di GAL e basta

 

Domenica mattina, Ca' Granda, Ospedale di Niguarda /CaGONi District

 

Tra le cose che sicuramente Denali ha imparato dalla vita, sebbene non ne sia ancora esperta come sua madre – che non ne è più esperta solamente per età, perché un'altra verità è che puoi essere vecchio senza aver capito niente –, è che la prospettiva da cui osservi le cose ne cambia in qualche modo l'aspetto. Un mattone, a seconda di come lo appoggi, può sembrarti largo, stretto, basso, alto. E in fin dei conti quei giorni nell'armadio di suo nonno sono stati la miccia della svolta, che l'ha portata a vivere integrata nell'Occidente Benestante, da donna (abbastanza) libera, e incontrare Marco che non riesce a guardarlo senza fremere di felicità, e costruirci insieme una famiglia medio borghese, in un contesto medio borghese, che sembra una cosa triste se la si intende come una gabbia, ma è una base solida se la vedi come un'opportunità, l'opportunità di potersi concedere dei sogni e l'illusione di realizzarli, la possibilità economica di soddisfare interessi, inclinazioni, passioni. Questi sono i pensieri del pigro risveglio della domenica mattina, quando Denali apre gli occhi e non si muove perché Ettore le ronfa sul petto e Marco è disteso accanto a lei in un letto d'ospedale, che non è comodo in tre, però pensa, si dice, per una cosa del genere in condizioni normali saremmo potuti star qui solo negli orari di visita, e invece, a causa della situazione dei mattoni, ci hanno concesso di fermarci.

Che fortuna.

 

Anche Franco Di Pace, nel letto accanto, dovrebbe dirsi “Che fortuna!”, ma non è cosciente. L'ultima cosa che ha visto è stato quel mattone che silenzioso sfrecciava giù dalle impalcature, nel cantiere che era andato a controllare. Quale cantiere, non lo ricorderebbe. Ricorderebbe solo il dolore immenso dell'impatto, proprio in mezzo alla fronte, del laterizio sulla sua testa. Ricorderebbe di aver pensato di stare per morire. Penserebbe proprio di essere morto. Invece è solo in coma. Si è salvato. Che fortuna. Non sanno che danni possa aver subito il suo cervello, ma è vivo. Che fortuna. Poi la scienza si fa misterica, perché non sanno neanche bene se si sveglierà. Ma lascia fare, direbbe Franco Di Pace, lascia fare: intanto son vivo, partiamo da questo fatto di base.

Che fortuna.

 

Che sfortuna, però, pensa Pier Filippo Magagna: l'ho preso in pieno, a Di Pace, con quel bel mattone, e quello sopravvive. Non è il suo mestiere, il sicario, ma quando ha visto il mattone seguire esattamente la traiettoria datagli e centrare il suo obiettivo ha creduto, più che in un colpo di fortuna, di aver trovato la propria autentica vocazione. Selezionato per l'operazione unicamente per l'insospettabilità, Magagna voleva riscattarsi agli occhi dei suoi mandanti: umile impiegato comunale, destinato a vita a fotocopiatrici e faldoni da archiviare, all'apparenza privo di qualità, era stato obbligato col ricatto all'eliminazione di Franco Di Pace. L'idea era che fosse un'alternativa eccellente ai soliti sicari della 'ndrangheta che oramai, descritti nelle migliaia di libri gialli che ne trattano, sono riconoscibili lontani un miglio. Chi poteva immaginare che quell'uomo minuto, con la faccia pure simpatica e dall'aria innocua, fosse un assassino?  Ovviamente, il rischio era che Magagna si facesse beccare, per inesperienza. Ma era sacrificabile, il ricatto lo costringeva a una solida inviolabilità dei patti, e poi in carcere avrebbe sicuramente incontrato qualche sicario della 'ndrangheta in villeggiatura poiché eccessivamente riconoscibile che avrebbe risolto la faccenda con un finto suicidio o una forchettata ben assestata.

Però Magagna il suo finora l'ha fatto, è stato solo sfortunato. Deve completare il lavoro. Altrimenti i suoi mandanti continueranno a ricattarlo. E peraltro, sa che ormai lo ricatteranno comunque. Tanto vale diventare un sicario affidabile. Ed è così che Magagna indossa un camice verde ed entra nella stanza, domenica mattina. Con tutti quei mattoni ha fatto fatica ad arrivare all'ospedale, ma la resa dei conti è vicina. In un letto, una negra con un bambino dorme abbracciata a un ragazzo bianco. Franco Di Pace, con la testa (s)fasciata, è nel letto vicino alla finestra. Magagna gli si avvicina, stacca tutti i tubi attaccati alle braccia e alla fronte del Di Pace. Sblocca le ruote del letto, lo avvicina alla finestra, apre i grossi vetri. Col telecomando comincia a sollevare la testata del letto, con l'intento di catapultare lentamente l'uomo in coma giù dal...

«Che cazzo stai facendo?» ruggisce Denali.

Magagna si volta interdetto, balbetta: «Ehm... sto... sto fa-facendo prendere un po' d'aria al...».

«Non mi sembra proprio! Chiamiamo qualcuno...»

«No! Ferma! Stai zitta, brutta pu...»

Sock!

Come in un fumetto, il cazzotto fa rumore e dice: sock!

Denali si guarda la mano dolente, un po’ incredula e un po’ euforica. Il pugno che si è schiantato sopra il muso di Magagna l’ha tirato lei. Nel frattempo, Franco Di Pace – giusto un attimo prima di volare fuori dalla finestra – si è risvegliato dal coma e ha assistito alla scena. Fissa il Magagna e con la voce roca dice: «Brutta merda, io t'ho visto... sei tu che m'hai lanciato il mattone!».

Magagna si fa feroce, una smorfia lo rende simile alle iene gangster della Disney, salta sul letto e con le mani minute afferra il collo di Di Pace e tenta di strangolarlo. L’altro è debole, diventa paonazzo, perde di nuovo conoscenza, Magagna avverte quasi un godimento fisico in quel che sta facendo... Poi Denali lo colpisce alla tempia col trespolo delle flebo scollegate. Magagna non se l’aspettava, di nuovo quella stronza di una negra… Si solleva, fa per dire qualcosa ma la botta gli ha dato le vertigini, o forse no, forse peggio, forse sta cadendo oltre la finestra, e già, sta cadendo, dev'essere molto alto perché non è anc...

Speck!

Il rumore di un porco che cade dalla finestra.

 

PorNuo District, Torre dell'Unicredit

Fratello Michetta osserva il drone ripartire verso il bar, sorseggiando il suo mokaccino. Sta da quasi due giorni asserragliato lassù, dentro la torre intitolata a un istituto bancario, nel punto più alto della città, un po' per osservarla, un po' perché spera che là i mattoni non lo raggiungano. Non che li tema. Ma li percepisce come una punizione, come la reazione dell'urbe alle sue idee sbagliate, ai suoi progetti fraintesi. Ora che li vede, capisce che i muri sono un errore. Ora che li vede, capisce quanto la speculazione edilizia abbia vessato la città che lui ama. A una donna regali un anello, un collier, un diadema, un bracciale. Poi basta. Se le metti addosso tonnellate di gioielli, lei soffoca. Costruire non è progresso, non è ricchezza. È stoltezza, è... soffocante.

Fratello Trani emerge dall'ascensore: «Michetta... non so se ti fa bene stare fisso qui...».

«Mi serve a vedere le cose con maggiore chiarezza. Novità?»

«Poca roba. Tra i nostri nemici conosciuti, nessuno è responsabile della faccenda dei mattoni. Però abbiamo saputo una cosina, minima...»

«Cosa?»

«Un impiegatuccio comunale è stato utilizzato come sicario improvvisato. È una voce che circola, bisbigliata tra le ombre di Palazzo Marino.»

«L'obiettivo?»

«Mah... dicono che l'impiegatuccio è stato ricattato per alcuni vizietti infamanti, foto di bambini nel computer dell'ufficio o roba del genere, da qualcuno in alto, per mettere fuori gioco un altro impiegato del Comune.»

«Perché non hanno utilizzato un professionista? Uno della 'ndrangheta, per dire, come fanno di solito?»

«Dài, Michetta, ormai li sgami lontano un miglio, con tutti i telefilm che ci fanno sopra!»

«Vero. Vero...»

Michetta sporge il bicchiere di cartone oltre il parapetto, ormai vuoto, e lo lascia andare, non sa perché.

«Che fai?»

«Trani... Lo senti questo rumore? Un rombo crescente?»

Lui tende l'orecchio. «Saranno le correnti d'aria... siamo molto in alto, sai?»

«No, Trani. È la città. Non ci vuole più.»

 

Intanto, a SoPoRo…

«San Gennaro, e che r'è 'stu burdell'?»

Jonathan Thoughts tende l'orecchio, poi fissa Nino negli occhi: «Guai!».

 

Intanto, all'Ospedale di Niguarda…

Denali guarda il corpo di Pier Filippo Magagna, un corpo per lei senza nome e all'apparenza senza vita. Giace scomposto su un letto di rucola selvatica e un rivolo di sangue gli cola dalla bocca e da un orecchio, scivolando sino al suolo e impregnandolo. Denali non se ne accorge, ma un sordo rombo si solleva nell'aere, in tutta la città. Come se qualcosa si svegliasse. Come un cambio ritmo in un pezzo punk hardcore. Marco le dice: «Den? Den! Vieni qui. Vieni. Chiamiamo qualcuno...».

In fin dei conti un uomo ha appena cercato di ucciderne un altro, inerme, ed è caduto dalla finestra nel tentativo. Bisogna capire chi ha bisogno di soccorso e per chi non ci sia più niente da fare. Denali si avvicina a Marco, accoglie tra le braccia Ettore. Marco pigia il pulsante per chiamare gli infermieri. Gli sembra di vedere qualcosa muoversi, oltre la finestra, oltre le strutture dell'ospedale.

 

Intanto, sulla Torre dell'UniCredit…

Trani spalanca la bocca, mentre Michetta invoca qualche divinità conosciuta solo ai massoni. Come fiori di un giardino incantato, decine, centinaia, forse anche migliaia di gru sono spuntate in tutta la città, che loro ammirano dall'alto, puntando all'immensità del cielo. Attorno a loro, tubi corrugati in plastica, d'ogni colore, per ogni tipo di cavo. Emergono dall'asfalto, e pulsano, e si agitano, come anguille decapitate a capodanno.

«A questo punto concluderei che no, non è un nemico che conosciamo.»

«Nessuno potrebbe fare questo.»

«Nessuno.»

«Che facciamo?»

«Non possiamo fare niente.»

«Preghiamo?»

 

Intanto, all'Ospedale di Niguarda…

Gli infermieri soccorrono subito Di Pace, appena tornato dal coma e svenuto giusto in tempo per non farsi ammazzare. Allertano la vigilanza, per l'uomo caduto, e il pronto soccorso. Denali sorseggia dell'acqua: «Dovremmo chiamare Jonathan».

«Sì, dovremmo.»

«Lancio il razzo?»

«Se vuoi. Io ed Ettore aspettiamo qui. Sali più che puoi.»

Denali afferra le cose di Jonathan Thoughts, raccolte in una shopper di cotone: «Vado. Prima che arrivi la polizia».

«Okay. Non so se questo evento possa avere qualche significato per Thoughts.»

«Non ne ho idea. Ma ormai ne ha per me. Ero lì quando è caduto...»

«Non è colpa tua, Den!»

«Lo so benissimo. Ma ero lì, e non è stato bello.»

Denali esce dalla stanza e percorre il corridoio, le piacciono i corridoi ampi dell'ospedale. Esce dal reparto, apre la porta antincendio che conduce alle scale e sale. Finché si può. In effetti la porta che si apre sul tetto è chiusa a chiave. Denali scende di un piano e va nella sala d'attesa del reparto all'ultimo piano. Spalanca una finestra con l'intento di sparare il razzo da lì, ma il rumore la frena. La città brulica, di metallo e plastica, gru e corrugati. Anche il cielo si sta facendo minaccioso. È proprio il caso di chiamare Thoughts. Infila la mano nella shopper, trova una piccola scatoletta con scritto “Ai miei figli in caso di morte”, sfiora il razzo col dorso della mano ma decide di afferrare il diario di Jonathan, quello da consegnare ai suoi colleghi dell'Osservatorio. Denali lo sfoglia. Non è scritto in una lingua comprensibile, non una che lei riconosca. È pieno di disegni, pasticci, scarabocchi. Sembra il quaderno degli appunti di un liceale nerd, che tra una formula chimica e un'equazione ritrae il proprio supereroe preferito, abbozza una strategia per affrontare i propri avversari in un gioco da tavolo e le fantasticherie di un ragazzino. L'ultima pagina è un disegno: un colosso di mattoni, una sorta di golem, o di Cosa dei Fantastici Quattro, afferra al collo una donna pallida, con l'evidente intento di strangolarla. Sul capo la donna indossa un diadema, una corona, qualcosa. Quel qualcosa ha la forma del Duomo di Milano.

 

Capitolo 10  – Le città invivibili

Domenica mattina, SoPoRo

 

«Guai gruoss’?»

«Assaje, Nino. Assaje.»

«Che sei paesano?»

«No no, però ho girato il mondo in lungo e in largo e conosco molti idiomi. Ma non ha importanza. Senti, me le fai rivedere le porcherie di quella chiavetta?»

«Eccome no, un momento.»

In casa di Nino la nottata è passata, ma di dormire non c’è stato verso per nessuno. La ’uaglioncella, è una vera bellezza, tutta la faccia di mamma’ e Nino pensa che è un bene, perché se gli veniva fuori con il naso come il suo, manc’ pe’ la carità di Cristo si trovava un marito, da grande. E le figlie vanno maritate e bene, per giunta. A questo punto Nino si sente di ragionare come a nonno suo, e non sa se sia una buona cosa. In casa c’è ancora il profumo delle donne che hanno assistito Annarella e Nino è contento che nel palazzo ci sia tutta quella gente che viene dalle Mille e una notte. Non ci si annoia mai, e ci sono sempre un sacco di occasioni per restituire i favori. Lui, comunque, non si è tirato indietro e ha distribuito con generosità il malloppo che aveva ricavato con il lavoro fatto prima di essere sequestrato dall’Assessore. 

Ciascuna signora, al momento del commiato, ha ricevuto il suo obolo. In modo cortese, per il disturbo, e soprattutto senza offesa. Loro hanno travagliato per cuore e spirito di solidarietà femminile, Nino lo sa bene, ma con il cuore e la solidarietà ci mangiano solo l’anima e lo spirito, mentre queste sante donne qua hanno figli e mariti che abbisognano di pane e companatico. E per quello ci vogliono i sord’. Che sembrano meno nobili del resto, ma che rendono meno lunga la pancia a sera e finiscono per essere benedetti come una mano d’aiuto. Di quelle che sorreggono, non di quelle che ti carezzano la capa ma per spingertela sott’acqua.

Nino è felice. La città è una fetenzia, Jonathan è inquieto e fa annanz’ e arretr’ come se la moglie che ha appena partorito fosse la sua, ma Nino alla fine è felice ugualmente. La ’uaglioncella l’hanno chiamata Tecla, perché un conto è chiamare un maschio Ambrogio, ma Ambrogina non si poteva sentire. Però Nino a questi fatti ci tiene e non gli pareva buona cosa fare lo scostumato con il Santo Patrono di Milano, anche se l’Assessore è ’nu figlio ’e ‘ndrocchia. Allora ha esposto la questione del nome della piccolina a tutta l’assemblea, figli compresi, e alla fine Jonathan, ’o forestiero, ha detto che Tecla era il nome perfetto. Tonino, che dopo l’avventura si è fatto chiù grande, ha chiesto perché e lui ha spiegato che Santa Tecla era la patrona della parrocchia del Duomo di Milano. Tutti felici e filatevene a nanna, ha aggiunto. Tecla rideva, e Annarella piangeva che non ci sperava più a una femmina.

Nino è felice, accende il PC e infila la chiavetta. È felice, perché Tecla è sicuramente l’eccezione che conferma la regola. Lui tutti maschi fa, ma per una volta è uscita una femmina. E Tecla, lui lo sa, sarà una bambina speciale. Poi il contenuto della chiavetta si palesa nuovamente sul video e Nino da felice si fa preoccupato. Bisognerà fare qualcosa per bloccare tutte ’ste sconcerie, altrimenti col piffero che Tecla e i suoi fratelli avranno un futuro in questa città. Bene che andrà, si ritroveranno tutti dopo Chiaravalle a campare nelle tende o nelle cascine abbandonate.

D’un tratto dietro a Nino si palesano anche i suoi figli e pure Annarella con Tecla in braccio.

Hanno delle facce che gli ricordano una pittura di uno famoso, quello che ha fatto l’Urlo o il Grido. Ma una pittura meno nota, che una volta Nino aveva visto in riproduzione tipo poster in una casa di un notaio di Brera. Un primo piano in bianco e nero di facce che parevano scheletri, ma vestiti a festa. Tutti fermi, anche se nella scena della pittura stanno camminando. Un quadro che gli aveva messo un’angoscia che manco se lo avessero beccato le guardie. Ecco, vedere la sua famiglia come quei volti là gli mette nel cuore una rabbia che se potesse ci salirebbe lui stesso ’n copp’ ai muri a guidare la rivolta. Altro che le cinque jurnate ’e Milano. "Qua facimm ’a rivoluzione” pensa.

«Bravo, Nino» butta lì Jonathan, «una bella rivoluzione è quello che ci vuole.»

«Ma che è, leggi nel pensiero?»

«A volte, dipende dai pensieri. Senti, qui necessitiamo di qualcosa di forte per fregare tutti questi politici e speculatori, ma non basta il coraggio. C’è bisogno di fantasia e anche un po’ di culo, scusate, ragazzi, e mi scusi anche lei, signora. Tu come stai messo a culo? Fantasia ne hai da vendere.»

I bambini ridono e Annarella si siede in poltrona. Tecla fa un ruttino.

«Io a culo sto inguaiato. Ma tra fantasia e palle, qui in casa ne abbiamo in abbondanza. E, modestamente, io un piano ce l’avrei pure. Una bozza, ecco.»

Una specie di terremoto fa tremare tutto l’appartamento, anzi il palazzo, di più, tutto il distretto e forse anche tutta la città.

«Che n’è, Ni’?» urla Annarella.

«Guai grossi!» dice Jonathan, andando alla finestra.

Rafe’ esce dalla voliera e gli si mette sul braccio, poi Jonathan lo fa volare come una colomba nera in mano a un Noè di periferia.

 

Intanto, in un’altra dimensione…

 

Il Consiglio Mondiale delle Grandi Metropoli Coscienti è tutto schierato.

Il palazzo di vetro ricorda vagamente quello delle Nazioni Unite, ma è molto più minimale. L’architettura potrebbe dirsi quasi brutalista, se Parigi non si offendesse. Quando Parigi mette il muso è tutta un pianto, che sembra un’alluvione. È dai tempi della Rivoluzione francese che ha preso un po’ troppo sul serio la grandeur e ha iniziato a fare la snob, anche se quando ha bisogno per le sue periferie non fa troppo la schizzinosa. Ecco, uno dei punti all’ordine del giorno è proprio quello delle periferie.

New York è presidente di turno e smartella a destra e a sinistra per mettere un po’ d’ordine nell’emiciclo.

Una digressione è d’obbligo per chi, comune mortale, ragiona con orizzonti differenti rispetto alle Grandi Metropoli Coscienti. Gli uomini credono di possedere le città dove risiedono. Infatti le chiamano così, la mia città. Le immaginano, anche se in verità esse sono invisibili ai loro occhi. Solo qualcuno, fra gli uomini, è in grado di commensurarle concretamente e, di solito, fa lo scrittore o il pittore. Qualche musicista, e dieci o dodici poeti in tutta la storia. Ecco, quelli sono i reali punti di contatto fra le Metropoli Coscienti e il resto dell’universo umano. Libri, dipinti che fissano l’essenza di un muro o di una finestra, e poesie che tratteggiano mappe impossibili laddove solo il folle deciderebbe di mettere radici. Dunque, i posti del Consiglio, l’emiciclo, sono gremiti come uno stadio per la partita più importante del secolo. Ma non si può trovare una raffigurazione fissa per comprendere come le Grandi Metropoli Coscienti si rappresentino al Consiglio. Non sono entità fisiche, reali e tangibili. Posseggono un’unica voce, ma che rimbomba di centinaia di migliaia di impulsi, cortocircuiti di sinapsi fra le più distanti. Ciascuna Metropoli è in quanto essere Cosciente, ma si rappresenta secondo la propria narrazione e secondo quello che accade sulla propria superficie.

Qualcuno definirebbe una Metropoli Cosciente come una balena gigantesca che solca i mari del tempo, con attaccati infiniti pesci che si nutrono di ciò che le incrosta la pelle. 

New York inizia con l’appello, per poter approvare l’ordine del giorno.

«Abidjan, Abuja … Città del Messico… Silenzio, per cortesia.  Lagos, Londra… Milano… Milano? Milano non c’è?»

Il Consiglio si ferma, le grandi vetrate si illuminano e ciascuna compone uno scenario apocalittico della città di Milano che è assente. Un grosso golem di mattoni strangola una figura dalla silhouette femminile che indossa un diadema modellato a guisa del Duomo.

New York riprende: «Roma, hai notizie di quello che stiamo vedendo sui nostri monitor?».

Roma si schiarisce la gola e cerca di dare una spiegazione. «Care colleghe, a Milano è in corso una strana battaglia fra gli uomini che coinvolge tutta la carne viva della Metropoli stessa. Ho solo poche righe scarne che mi ha inviato Milano, la quale dice di potersela cavare da sé anche a costo di soluzioni drastiche ed estreme.»

«Grazie, Roma. Quindi ciò che vediamo è opera della città stessa?»

«In parte sì. In parte invece si tratta del piano eversivo delle consorterie umane. Non tutto ci è chiaro, ancora. Abbiamo però un nostro uomo dell’Osservatorio ministeriale sul campo che sta mettendo insieme una squadra di difesa.»

«Bene, quindi pongo al voto la possibilità di continuare a monitorare la situazione e di riservarci di convocare il Consiglio per eventuali azioni.»

«Perché non interveniamo?»

«Mosca chiede di parlare, ne ha facoltà.»

«Grazie, presidente. Dico, perché non interveniamo direttamente in difesa di Milano? Ci sono diversi modi possibili di dare una mano alla nostra consociata. Scosse telluriche, possiamo deviare del gas e far scoppiare qualche zona sensibile. Intanto la squadra dell’Osservatorio ministeriale italiano potrà avere le spalle coperte.»

«Non sono d’accordo.»

«Berlino chiede di parlare, ne ha facoltà.»

«Grazie, presidente. Ribadisco che non sono d’accordo. Noi troviamo strategie comuni da applicare, poi, in modo autonomo su ciascuna superficie coinvolta. Dobbiamo tutelare il patrimonio comune e tollerare gli aggiustamenti sistemici di ciascuna entità. Milano ha detto che può farcela da sola, quindi attendiamo comunicazioni.»

«Mosca e Berlino hanno parlato. Qualcuno ha proposte?»

«Noi diciamo di aspettare, come vuole il Consiglio. Se le cose peggioreranno, la linea di Mosca sarà anche la nostra.»

«Beijing ha parlato. E credo, lo dico in qualità di presidente, che sia la soluzione più saggia.»

Le pulsantiere dell’emiciclo si muovono quasi all’unisono e sembrano suonare una strana aria di guerra latente. Qualcosa di sublime e pericolosissimo al contempo. Le immagini sulle grandi vetrate si diradano, spariscono i fumi, i muri, le auto e tutta Milano, lasciando il posto all’esito della votazione.

Il Consiglio approva la mozione.

«Bene, ora passiamo al prossimo argomento. Le banlieue parigine e la loro correlazione con le attività umane coloniali e postcoloniali.»

 

Nel frattempo, a SoPoRo…

 

«Rafe’ non è ancora tornato?»

«Un momento, credo stia arrivando.»

La cornacchia è stata via poco meno di un quarto d’ora, però le deve essere bastato per farsi un’idea dell’ulteriore devastazione che si è rapidamente impadronita della città.

Nel becco non stringe un ramoscello d’ulivo, ma un pezzo di un tubo corrugato con attaccati alcuni brandelli di cavo elettrico.

Posa tutto sul pavimento del balcone, poi si fa vicino a Nino che gli accarezza la testa e gli porge un biscotto recuperato sulla credenza.

Rafe’ mangia e si sposta verso Jonathan Thoughts.

I due si guardano negli occhi, di sbieco, per facilitare la cornacchia.

I vispi occhi neri di Rafe’ diventano schermi per quelli di Jonathan, che si infiamma come fosse percorso da una scossa elettrica.

«Nino, andiamo sul tetto. Solo io e te.»

«Seguimi.»
Dagli abbaini di via dei Cinquecento si può accedere ai tetti, anche se l’operazione non è delle più facili. Nino è abituato, ma nutre qualche dubbio sul suo amico forestiero. Con quel fisico non è facile essere anche agili. Jonathan, invece, sembra una capra e, in men che non si dica, è appollaiato accanto al paletto della linea vita montata qualche mese prima dall’Aler.

«Uè, tu sei sempre ’na scopert’»

Il cielo sopra Milano è torvo e scuro nonostante l’ora mattutina.

Distese di gru e tubi corrugati, del tipo portato da Rafe’, si stagliano dal suolo verso il centro e sembrano avviluppare l’intera metropoli come le braccia del Dottor Octopus, nel dvd dell’Uomo Ragno che Nino ha fatto vedere a Toni e ai bambini qualche sera prima.

«Spettrale, vero?»

«Eh, sì. E mo’?»

«E mo’ mi dici il tuo piano.»

«Eccellenz’, che voi siete uno che non è normale come a noi l’ho capito da come fissavate l’uocchie di Rafe’. Io mi sono fatto l’idea che la chiave per scardinare tutto ’stu burdell’ è l’avvocato Dei. È lui che l’Assessore ha chiamato quando ero legato stretto stretto al suo termosifone. In ’ste cose noi comuni mortali, quelli che pe’ mangia’ hann’ ’a fatica’, non ci possiamo entrare soli. Dobbiamo avere ’na guida. E ’stu avvocato per me ha la possibilità di arrivare di nuovo dall’Assessore, che tra le altre cose ha commissionato anche l'omicidio di un impiegato comunale, e può darci il modo di utilizzare i segreti contenuti nella chiavetta. La catena è semplice: avvocato Dei, stampa, guardie e la Rete. Una specie di vaccino a tutto ’sto manicomio.»

«Nino, credo che tu abbia fatto centro. Ora però devo andare, sono atteso altrove.»

 

Contemporaneamente, all’Ospedale di Niguarda…

 

Denali, affacciata alla finestra dell’ospedale, prende in mano il razzo e fa per accenderlo, le carte e il diario di Jonathan incastrati sotto l’ascella.

Un refolo di vento freddo la rallenta.

«Denali, lascia stare il razzo. Tienilo per i momenti bui. Più bui di questo.»

«Ma com…»

«Non chiedere se non vuoi sapere davvero. Non è colpa tua quello che è successo in camera, poco fa. Ah, hai letto i miei appunti? Per fortuna non sono ancora morto. Coraggio, dobbiamo andare a salvare la donna con il diadema.»

 

 

CONTINUA...

 

ASPETTIAMO I VOSTRI SUGGERIMENTI PER IL PROSIEGUO DEL ROMANZO!

mercoledì 5 luglio 2023

Stop agli spunti!

Anche stavolta è il momento di dire: stop agli spunti! Ora tocca ad Andrea Ferrari e Francesco Gallone riprendere in mano la narrazione e scrivere i nuovi capitoli del romanzo, che verranno pubblicati il 12 luglio. Stay tuned!


Foto-spunto di Alessandro Cavallini