STRASTORIE EXTRALARGE
UN ROMANZO SCRITTO ATTRAVERSO
L’INTERAZIONE CON I LETTORI DA RICCARDO BESOLA, ANDREA B. FERRARI E FRANCESCO
GALLONE
|
Guendalina Ravazzoni, Fuga d'aquilone |
Capitolo 13 bis
In cui il nastro riprende ma non si
comprende
Giacomo
maneggiò per qualche minuto le manopole del suo videoregistratore: era un
modello Mivar a 64 testine che poteva riprodurre i nastri a 32 velocità
diverse, in avanti e all'indietro Anna si rigirava tra le mani la custodia della
videocassetta, leggendo e rileggendo l’etichetta: “Laputa... chissà che vuol
dire?”.
Luca,
comodamente affondato su una delle sedie da cinema imbottite originali anni
Trenta, senza distogliere lo sguardo dal riquadro vuoto della proiezione che
ondeggiava sulla parete bianca, disse: “Laputa è un cartone animato. Bello. Di
quello che ha fatto Il castello errante di Howl.”
“Miyazaki?
Uè, c'ha una cultura, il tuo amico barba!” commentò Giacomo, che intanto aveva
fatto ripartire il nastro, avviando uno strano filmato disturbato e sgranato di
una gara di aquiloni in un oratorio.
“Anche
papà ha una cultura, Giacomo. Essere un senza fissa dimora non vuol dire essere
ignoranti” rispose Anna.
Giacomo
nel frattempo aveva recuperato il suo iPhone nel terrario di I-guana, alla
ricerca di informazioni su quel nome: “‘Laputa:
la terza città visitata da Gulliver durante i suoi viaggi. È un'isola nel cielo
governata secondo un'utopia che si rivela fallimentare...’ Sai cosa
penso, Anna? Che tu stai cercando una logica nelle azioni di persone che non ne
hanno più.”
“Cosa
intendi, Giacomo?”
“Cosa
intendo? Non lo vedi?” e indicò Luca, immerso totalmente nelle immagini di un
altro filmato, dell'orto da balcone di don Giuliano, che mostrava le zucchine e
i pomodori cresciuti nelle vaschette agganciate alle ringhiere, tutto
sorridente e soddisfatto: “Tu sei venuta qua con quel... quel... quello lì, che
guarda i video sul muro come un selvaggio si inginocchierebbe a venerare una
radio accesa, e non capisci cosa intendo?”
“No,
sinceramente non lo capisco, Giacomo. Sto cercando nostro padre, che è
sparito...”
“Lo
fa sempre. L’ha già fatto.”
“...
che è sparito e per cui dovresti essere preoccupato anche tu, e l'unica traccia
che ho è questa. Tu cosa faresti?”
“Io?
Niente. Non ho tempo da perdere appresso alle stramberie dei barboni. Ho un
business da portare avanti” rispose lui, riponendo nuovamente l’iPhone nel
terrario di I-guana: “Anzi, ti dirò: io devo andare ad aprire i locali.
Facciamo una cosa: faccio una doccia, passo giù al ristorante, vedo come sono
messi e vi porto su qualcosa da mangiare, a te e al tuo amico. Poi cerchiamo di
chiudere questa faccenda della videocassetta, eh?”
Anna
fece una smorfia, e con un certo broncio rispose che andava bene.
Giacomo
era inquieto. Da una parte questa faccenda dell'ennesima scomparsa di suo padre
lo infastidiva, perché si aspettava che come ogni volta che s'era preoccupato
per quell'uomo tutto si sarebbe risolto nelle sue soluzioni egocentriche, nel
suo fuggire da tutti per un se stesso sempre più smarrito. Era arrabbiato,
Giacomo, perché quell'uomo era stato annichilito dalla vita, ma credeva che non
per questo avesse diritto di abbandonare lui, sua sorella e sua madre. D'altra
parte, era pur vero che per ridursi così suo padre aveva dimostrato una grande
fragilità, e se era tanto fragile e fosse stato in pericolo, avrebbe avuto
ancor più bisogno del loro aiuto. Infine lo offendeva che sua sorella pensasse
– ma lui per dispetto faceva di tutto per lasciarglielo pensare – che non fosse
interessato alle vicende paterne: Anna non sapeva che Giacomo era uno di quei
ristoratori che rifornivano con i propri avanzi il Refettorio, pensando che
così il Malandato avrebbe avuto sempre un pasto assicurato, Anna non era al
corrente di tutte le donazioni che Giacomo faceva alle associazioni che si
occupano di senzatetto, Anna non capiva che il successo dei suoi locali era per
Giacomo un riscatto dell'onore del padre. Uscì dal getto d'acqua calda della
doccia, e appena il sensore non ne avvertì più la presenza interruppe il fluire
dell'acqua. Giacomo si asciugò, indossò degli abiti alla moda che sembravano il
perfetto ibrido tra un pigiama e il costume di scena di un prestigiatore
ottocentesco, indossò delle pantofole di pelliccia (ecologica: acrilico) molto
in voga per frequentare i salotti di Milano, recuperò l’iPhone e si diresse
verso il Tempio della Bistecca di Seitan, che distava un quarto d'ora a piedi
dal suo appartamento.
Anna
si guardava attorno. Suo fratello s'era sistemato bene, era stato in gamba, e
lei e sua madre dovevano essergli grate, perché le aveva aiutate tantissimo. Il
loro stile di vita era agiato, nonostante la rovina che aveva investito la
famiglia anni prima. Anna sapeva che Giacomo era attaccatissimo al Malandato,
anche se fingeva di non essere interessato a lui. Sapeva che tutto quello che
si era conquistato, tavolo per tavolo, vetrina per vetrina, ogni locale, ogni
successo economico, quell'appartamento pieno di oggetti vintage o di design o
tutt'e due, l'aveva ottenuto a nome dei Belotti, a nome di suo padre. Solo,
avrebbe voluto che si vestisse meglio...
Giacomo
e I-guana fecero il loro ingresso nel locale appena aperto. La ragazza dietro
il bancone lo salutò con deferenza e gli confermò che era tutto prenotato, come
al solito. Lui annuì senza parlare, e spuntò in cucina, dove chiese tre cous
cous, una teglia di patate al forno e dei falafel da portar via. Cuoco e vice
si misero subito al lavoro, e Giacomo tornò in sala. Cominciarono a giungere i
clienti, tutti lo salutavano, gli stringevano la mano, gli sorridevano. Le
donne, tutte, tra i venticinque e i settantacinque anni, lo mangiavano con gli
occhi. Giacomo rispondeva educatamente con simpatia e sagacia, ricambiava le
strette di mano e, con più ritrosia, gli abbracci e i baci. Tre quarti di
quella gente era lì non per la cucina, ma per lui, per il suo successo, per la
sua nomea, per il marchio dell'I-guana. Giacomo lo sapeva. Era grato a tutti.
Ma non ne aveva stima.
“A
che punto è, ora, Luca?”
“C'è
don Giuliano che parla delle edicole.”
Sulla
parete, don Giuliano assisteva allo smantellamento di un'edicola dei giornali,
e diceva: “Le edicole stanno
scomparendo, è un processo di consunzione che sembra inarrestabile. Negli
ultimi anni le edicole, che un tempo erano 38.000, si sono ridotte a meno di
20.000. Lo sai che con quelle strutture che stanno smantellando noi in missione
in Africa ci potremmo costruire un ospedale intero!”
La
voce che rispose era disturbata, ma la camera continuava a seguire con
attenzione le operazioni di smontaggio del vecchio chiosco dei giornali. Il
nastro terminò, il videoregistratore fece tlac
ed espulse la cassetta. Luca si alzò e la reinserì, poi armeggiò con tasti e
manopole del vecchio Mivar e fece ripartire la proiezione, a ritroso. L'edicola
piano piano si rimontava, don Giuliano parlava in una strana lingua, tutti
sembravano un po' più goffi.
“Come
hai fatto?” chiese Anna.
“Ho
attivato la funzione di riproduzione al contrario.”
“Ma...
tu sai usare questi aggeggi?” si stupì lei.
“Beh...
sì. Tu no?”
“No,
cioè, sì, è che... pensavo che tu...”
“Non
ne possiedo uno, ma quando stavo con mamma ne avevo tre. E sei lettori dvd. E
poi avevo anche le chiavette usb. E il mio computer.”
“E
perché non stai più da tua madre?”
“Perché
mia mamma non c'è più. È morta. Mi manca tanto, ma sono capace di stare da
solo. Quando c'era mamma lavoravo, lei mi aiutava a essere preciso. Cioè,
puntuale, ordinato, pulito. Gli assistenti sociali credono che io da solo non sia
capace, ma sono capace. È che magari non mi piace...”
Anna
lo guardava trepidante, come se stesse rivelando il terzo segreto di Fatima,
come se quello che aveva visto nascosto dietro i suoi occhi durante la camminata
dal Niguarda al Refettorio potesse uscire allo scoperto, ora, e gridare “Tana per Luca!”. Ma lui non
proseguì. Tornò in silenzio a guardare la videocassetta che girava al
contrario. Qualcuno suonò il campanello, e poi si udì la chiave girare nella
serratura. Era Giacomo: “Ho suonato. Magari stavate limonando...”.
“Sei
un cretino!”
“Perché?
Non ti piacciono i casi disperati? Come papà, la mamma...”
“E
te!”
Scoppiarono
a ridere.
Tutti
e tre.
Mangiarono
di gusto, e Luca tenne da parte una polpetta di falafel per Jake, il suo Bob.
Si chiese, con un po' di malinconia, dove fosse il suo giovane amico peloso, se
avesse mangiato o se avesse freddo, confidando di riabbracciarlo di lì a poche
ore al loro appuntamento al parco Sempione, presso le ciotole della gattara.
Giacomo fu felice che i suoi commensali gradissero i piatti che lui offriva al
pubblico, e notò che Luca mangiava con appetito, ma con calma ed educazione. I-guana
coccolava una carota, mentre osservava il proprio padrone ridere, finalmente,
dopo tanti anni, con sincerità: sembrava davvero a suo agio a quella tavola.
Decise che quella sarebbe stata la prossima foto di Instagram pubblicata, e,
azzampato il telefono, immortalò la tavola con l'hipster, la ragazza della
porta accanto e il clochard. Erano quasi le dieci di sera.
“Allora,
sister, la visione di questa VHS ha suggerito qualcosa alle vostre vivaci
intelligenze di detective?” chiese Giacomo, versando una tisana digestiva in
larghe e capienti tazze.
“Mah,
non saprei. Luca ha riguardato il nastro tre volte, due in avanti e una
all'indietro. Cosa ne pensi, Luca?”
“La
recita. I vasi sul balcone. Gli aquiloni. Le edicole. Le preghiere. I senzatetto.
Ci sono queste cose qui” rispose lui.
“Beh...”
s'intromise Giacomo. “C'è la città nel cielo di Swift e c’è una recita dei Miserabili.”
Anna
rimuginò: “I viaggi di Gulliver...
che può voler dire? Perché Carcarlo pensa che questa cassetta sia un indizio?
Così significativo, poi?”.
“I
senzatetto sono girovaghi, no?”
“Mi
pare tirata per i capelli. Inoltre la cassetta è un'accozzaglia di
registrazioni casuali, nemmeno consequenziali: ci sono un sacco di spezzoni non
registrati, o cancellati, o vecchie registrazioni che compaiono tra un filmato
e l’altro...”
“Ma
ci sono, secondo te, delle registrazioni di uno stesso periodo?”
“Quelle
dell'oratorio, della chiesa, sì, parrebbero tutte dello stesso periodo. Si
potrebbe risalire a quale cercando quando è stata rimossa l'edicola che si vede
nel video!”
Giacomo
sbadigliò. “Bene. È tardi. Passo al Tempio a chiudere la cassa: tu chiama la
mamma, e dille che dormi fuori. Starete qui, nella camera degli ospiti.”
“Ma...”
“Niente
ma, Anna. Di’ alla mamma che domani la raggiungiamo al Castello. Adesso andate
a letto, domattina ci sveglieremo presto e cercheremo di dare un senso a tutto
questo: okay?”
Anna
annuì. Luca era in uno dei suoi quarti d’ora di stand-by e fissava la
portafinestra del balcone.
Anna
si preparò per la notte, salutò Luca che in quel momento sembrava su un altro
pianeta e si ritirò nella camera degli ospiti.
Giacomo
era nel suo locale, la cameriera stava finendo di pulire i tavoli, la cucina
era già vuota.
Luca
continuava a guardare la portafinestra.
I-guana
aspettava il proprio padrone, nel terrario, in compagnia dell’iPhone.
Giacomo
salutò la cameriera, spense le luci principali, lasciando accese quelle soffuse.
Azionò l'allarme.
Luca
comprese. Era talmente ovvio. Si alzò in piedi.
Giacomo
guardò le luci nella strada vuota, e si chiese dove potesse essere suo padre,
se avesse mangiato, se avesse freddo, le stesse cose che s'era chiesto Luca di
Jake. La differenza era che non contava di riabbracciarlo presto.
Luca
s'avvicinò alla portafinestra. Ruotò la maniglia. Uscì sul balcone.
Quando
Giacomo rientrò in casa, non trovò nessuno. Immaginò, con un sorriso malizioso,
che Luca fosse con Anna.
Solo
I-guana l'aveva visto uscire sul balcone, e sparire.
Capitolo
14
Dove
ci si lecca le ferite e si guarda nel futuro
Flambé
era contrariato.
Quei
ratti imbecilli non solo si erano fatti sconfiggere come fossero dei topolini
di campagna, ma con la loro fuga dalle squadriglie di Don Picciotto gli avevano
impedito di seguire le nutrie.
Quando
era riuscito a raggiungere il piano terra della Torre Galfa, su via Melchiorre
Gioia il traffico isterico era già così intenso che, per non fare la fine di un
suo cugino sulla Tangenziale Est, Flambé si era visto costretto a passare
rasente ai muri dei palazzi fino alla Stazione Centrale dove sapeva che i
piccionotti di Don Picciotto avevano uno dei loro quartier generali per
controllare la città. Don Picciotto aveva basi ovunque, nessun angolo di Milano
era inaccessibile per lui, quindi Flambé avrebbe fatto ricorso al suo asso
nelle vibrisse. Non vedeva altro modo per ritrovare quelle stupide nutrie. Ma
per questo bisognava aspettare il mattino.
PM10,
nonostante il suo vizio poco salutare di ciucciarsi le marmitte delle auto,
correva come una lepre verso il fondo di via Melchiorre Gioia, là dove i grattacieli
lasciano il passo a un piccolo ponticello e la pista ciclabile scompare come
inghiottita dalla sopraelevata che vira, a destra, verso l’arco di Porta
Garibaldi.
Jake
e Scolo, ancora molto acciaccati per la battaglia contro i ratti della Torre
Galfa, si trascinarono dietro al loro strano amico con l’aiuto di Raf che
svolazzando avanti e indietro dava loro le indicazioni per non perdere la
strada. In ogni caso, dovevano ammettere che i rimedi a base di guano medicale
dei piccionotti erano davvero miracolosi.
Don
Picciotto, appiccionato sul suo vassoio avi(o)trasportato, guatava lo scorrere
della città che si avviava verso una nuova giornata di frenetica attività, con
quello sguardo tipico dei piccioni sornioni. Di primo acchito i piccioni
sembrano sempre tonti, in verità meditano sul reale per girarlo a proprio
vantaggio, ma gli umani – i veri stolti – non se ne rendono conto.
Il
tenente Colombo, da ultimo, scortava la truppa in febbrile attesa di un ordine
del suo comandante in capo.
I
randagi della Centrale si misero sul chi va là quando avvertirono l’odore di
bruciaticcio di Flambé e gli mandarono subito incontro un’ambasciata. Meglio
non avere problemi con uno della sua schiatta.
Flambé
vide arrivare dai cespugli delle aiole asfittiche della stazione una gatta
grigia, sporca per lo smog, ma sensuale e affascinante.
Il
suo nome non era così potente come quello di Don Picciotto, ma il fatto di
essere sopravvissuto alle fiamme dell’inferno e la sua collezione di code,
sempre in attesa di essere completata, facevano comunque presa sugli altri
animali che popolavano la città.
La
gatta lo accolse e, senza nemmeno un miagolio, lo condusse, in chiaro
atteggiamento di sottomissione, verso un angolo buio sotto i portici della
grande stazione. Lì si stavano risvegliando da una gelida notte un numero pressoché
incalcolabile di senzatetto, tossicodipendenti e migranti che si erano persi
nella terra di nessuno che è il confine fra il coraggio di partire e la fine
della speranza di arrivare da qualsivoglia parte.
Flambé
guardò tutto quello sfacelo umano con uno sdegno che andava ben oltre la sua
condizione di felino e quindi di essere divino per antonomasia. No. Lì il
gatto, che qualcuno fra gli animali chiamava a nove code per via della sua
collezione di ammennicoli posticci, anche se gliene mancava ancora una, vedeva
tutto quello che non funzionava nella società degli uomini. Vedeva la resa inconsapevole,
il lasciarsi scappare di mano le proprie vite per inettitudine. Il Malandato, Carcarlo e tutti gli altri
erano nettamente diversi da quella massa di disgraziati. Loro erano di un’altra
risma. Erano superiori, doveva ammetterlo.
La
gatta, chiusa in un silenzio ostinato che contrastava con il frastuono
assordante della piazza, del traffico e di tutta la gente che si perdeva dietro
alle proprie faccende, si mise a giocherellare con l’avanzo di una razione di cibo che alcuni
volontari portavano, di sera, agli umani che dormivano a terra.
Con
la sua zampina rovesciò il residuo piuttosto cospicuo di pasta al sugo e con
occhi maliardi indicò a Flambé una coppia di piccioni appollaiati al limitare
delle arcate squadrate dei portici della stazione.
Flambé
comprese, congedò la gatta, dandole mentalmente un appuntamento galante quando
avesse finito la sua missione, e si gustò il frullo d’ali dei due piccioni
richiamati da quello spuntino fuori programma.
Era
certo che fossero pennuti di Don Picciotto.
Jake
e Scolo, guidati da Raf, trovarono PM10 in un delicato giardinetto verdissimo
sotto il livello della strada, in prossimità di una chiusa con le paratie di
legno fradicio. Una volta doveva essere stata funzionante, ma dava l’idea di
non vedere acqua corrente da un sacco di tempo. PM10 era stravaccato vicino a
una panchina verde, e alcuni sbuffi di fumo denso gli fuoriuscivano dalle
narici e da sotto i dentoni giallastri. Il loro compagno, dalle riabilitate
capacità divinatorie, almeno a detta dell’Unicorvo, l’oracolo della Grande
Punta, li squadrò con occhi muti che si dirigevano ora verso il cielo grigio,
ora verso il fondo del giardinetto che proseguiva fino a un piccolo parco
giochi attrezzato per i cuccioli di umano. Da lì si scorgeva un localino, ancora
chiuso, dove gli umani senza cuccioli passavano le loro brave nottate a
sorseggiare Ruttaforte come se non ci fosse un domani.
All’arrivo
di Don Picciotto e del tenente Colombo, PM10 sembrò destarsi.
“Bella
zii, scusate la corsa, ma là ai piedi della Grande Punta e con sua maestà
l’Unicorvo ho avuto l’ispirazione.”
“Volevi
dire aspirazione?”
“No,
Scolo, questa volta è proprio l’ispirazione. Mi è venuta l’idea di rifugiarci
qui. È un bel posticino protetto e sotto il livello della strada. Pochi
pericoli e tante marmitte a portata di bocca!”
“Cra, cra,
ma i ratti potrebbero trovarci. Dalla Torre Galfa è tutta dritta e non gli ci
vorrà niente per arrivare.”
“Giusto!
E avete visto cosa hanno combinato alla coscia di Scolo e alle mie belle
chiappette? Non fosse stato per Don Picciotto saremmo già al cospetto della
Grande Nutria.”
Don
Picciotto approvò le riflessioni di Jake con un sommesso “gru, gru” strofinandosi
il becco con il dorso della zampa destra. Il vecchio boss aveva carisma, non
c’erano Sante Nutrie che tenessero.
“No,
zii, no! Le vedete quelle scatolette nere legate alle panchine e alle basi dei
pali della staccionata?”
Tutti
fecero sì con la testa.
“Quelle
sono trappole seccaratti.”
“Ci
sono anche in Martesana, ma lì i ratti non si seccano.”
“Perché
queste sono seccaratti del centro.”
“Non
capisco”
“Caro
Jake” disse PM10 “in centro i ratti non ci devono essere, sennò gli umani dove
vanno a divertirsi? Qui il veleno è più forte e i ratti lo sanno, quindi se ne
vanno verso la periferia.”
“Ma
anche alla Cascina vicino al naviglio ci vanno gli uomini a divertirsi” disse
Raf.
“Già,
ma quelli sono uomini differenti e i ratti, per loro, sono chic” chiuse PM10,
quasi addormentandosi.
Il
silenzio regnava sovrano nel giardinetto, le auto che scorrevano sulla strada
poco sopra erano una colonna sonora ritmica, intervallata da qualche strombazzo
di clacson che, nella mezza luce del mattino, sembrava ricordare a tutta la
città delle bestie e degli umani (in rigoroso ordine sparso) che era ora di
alzarsi e andare a far girare l’ingranaggio produttivo che tutto mangiava e
tutto sputava.
Flambé
con un balzo degno di un ninja fu sopra ai due piccionotti.
Ne
afferrò uno con la bocca e stordì l’altro con una zampata fulminea.
I
barboni lì intorno e i passanti che andavano a prendere il treno sembrarono non
far caso alle disperate grida dei due malcapitati.
Flambé
attese un momento, si guardò intorno in cerca di un posto per nascondersi e si
infilò in una nicchia a metà via fra una colonna e un supermarket aperto 24 ore
su 24. Il gatto amava gli umani e quelle cuffiette che tappavano loro le
orecchie e all’occorrenza anche gli occhi.
Sputò
il pennuto che aveva in bocca e gli schiacciò il collo con la zampa libera, poi
si rivolse a quell’altro: “Adesso, cari i miei piccionotti, mi dite dove posso
trovare le nutrie e il vostro capo e io vi risparmierò la vita”.
I
piccionotti, che non erano due vedette di prime piume, sfoderarono uno dei loro
sguardi da piccione e giurarono di essere appena arrivati da Venezia per via
dell’acqua alta.
Flambé,
poco incline alla pazienza, bruciava d’odio e senza troppi complimenti strozzò
il piccionotto che in precedenza aveva tenuto in bocca.
“Avrai
un nido, qualche uovo che ti aspetta e non vorrai per caso fare la fine del tuo
compagno gondoliere, no?”
Il
piccionotto superstite strabuzzò gli occhi. Quel gatto li aveva fregati e non
era il caso di lasciarci le penne in due. In più, ma non ne era sicuro, se il
gatto l’avesse lasciato andare, avrebbe potuto volare fino da Don Picciotto e
portargli la triste ambasciata. Sapeva di essere appollaiato sul filo del
rasoio e decise di parlare: “Gru, gru, non so dove sia Don Picciotto e
spero che quando ti incontrerà ti faccia pentire amaramente di esserti messo
contro di lui, ma le nutrie si sono dirette verso la chiusa in disuso che passa
sotto la strada maestra, dopo il distretto dei grattacieli. Di più non so.”
Flambé
strinse un po’ la gola del piccionotto e fece mente locale.
Si
ricordò quasi subito della vecchia chiusa, del tunnel che vi ci arrivava direttamente
e del giardinetto isolato, dove qualche umano aveva piantato fiori e piante
profumate. Gli stessi umani che lasciavano sempre qualcosa per i gatti del
centro.
Quando
ebbe tutto chiaro in testa, Flambé lasciò andare il pennuto che sfrullò d’ali
per scappare lontano, ma non ne ebbe il tempo.
Il
gatto che aveva assaggiato le fiamme dell’inferno non gli diede scampo e con
una zampata mancina lo uccise senza pietà. L’unico rimpianto fu che aveva già,
nella sua collezione, una coda di piccione.
Fu
Scolo, ancora acciaccato e con un certo ribrezzo per il lezzo di guano che emanava
la sua ferita, a rompere l’incantesimo e a riportare l’attenzione di tutti
sulla loro ricerca: “Ehi dentoni, becconi e piccioni” disse “quanti occhi di
vetro può avere un umano con un occhio di vetro?”
PM10
era ormai catatonico e non rispose.
“Cra, cra,
uno” gracchiò Raf.
Jake
fece per parlare, ma fu stoppato da Don Picciotto.
“Uno”
disse il boss guardando Raf con lasciva condiscendenza. “Uno per volta.”
Scolo
strabuzzò gli occhi e si accorse di avere una gran sete.
“Ha
ragione Don Picciotto” disse Jake “ma che c’entra questo con la mappa e i
dischi del Malandato?”
“È
che non mi tornavano i conti, ma così è okay. Jake, saresti così gentile da
cercarmi qualche fondo di Ruttaforte là sopra dove c’è il locale?”
“In
che senso non ti tornavano i conti?”
“L’occhio
del Malandato, vecchia lenza, l’avevano preso Luca e la figlia del Malandato,
non ti ricordi?”
“Cra, cra,
non ci avevo fatto caso.”
“Porcavacca”
disse Jake sperando di non mettersi in cattiva luce con quella creatura
mitologica “con tutto quel trambusto mi sono scordato di dirvelo.”
“Cosa?”
dissero tutti in coro, fissando prima Jake e subito dopo PM10 in cerca di un
aiuto soprannaturale.
Flambé
corse come se il Diavolo in persona lo stesse inseguendo per finire il lavoro
che aveva iniziato anni fa. Tirò dritto fino alla Torre Galfa, dove vide una
squadra di umani in assetto da caccia al ratto, e sgattaiolò ai piedi del
distretto dei grattacieli attraverso il campo di grano e poi sotto ai cantieri
dietro alla Grande Blatta. Proprio all’imbocco del tunnel che portava alla
vecchia chiusa diroccata, si fermò. Prese fiato, spruzzò un po’ di urina sui
muri sotto al tunnel e, rasentando le vecchie mura della chiusa, s’infrattò
dietro al montante di un corrimano in pietra. Da quella posizione sopraelevata,
rispetto al giardino, poteva vedere e sentire le nutrie, la cornacchia e Don
Picciotto.
Il
tempo della verità era arrivato.
Jake
era imbarazzato, non sapeva come aveva fatto a dimenticarsi di raccontare ai
suoi compagni che sul fondo del cassetto del Malandato, dove aveva trovato lo
strano disco e le copie delle mappe, c’era anche una scatolina con dentro
alcune riproduzioni identiche dell’occhio di vetro. Scappando, al culmine della
battaglia, aveva acchiappato tutto quello che era riuscito a prendere, occhi
compresi, e si era lasciato trasportare sul vassoio di Don Picciotto.
Tutti
lo guardarono comprensivi.
“Beh,
vecchia lenza, siamo andati così vicino a lasciarci le pellicce che una
dimenticanza così ci sta eccome. Quanti occhi ci restano?”
“Altri due” disse Jake, indicando una
scatoletta mezzo schiacciata incastrata alla bell’e meglio dentro la copertina
del disco.
“Cra,
cra, ma adesso che dobbiamo fare con tutte queste informazioni?”
“Le
informazioni si usano come merce di scambio” sentenziò Don Picciotto.
“Certo
Don Picciotto” disse Scolo “ma noi non abbiamo nessuno con cui scambiarle e non
ci stiamo capendo una coda.”
Fu
allora che PM10 si destò e scappò a zampe levate fino al livello superiore
della strada, verso il centro della città. Tutti si guardarono immobili,
nessuno aveva voglia di riprendere a corrergli dietro.
Poco
dopo però PM10 tornò con uno strano oggetto fra le zampe.
“Motorini”
sbuffò. “La miscela è buona, ma la meccanica è scadente. Me lo sono succhiato e
mi è rimasto in mano. Poco male, la mia tromba era andata e inizierò a suonare
il piffero.”
“Deve
fare la divinazione” spiegò Scolo.
Il
sibilo che uscì dal tubo di scarico del motorino sembrò più un rutto, ma le parole
che seguirono furono strabilianti:
“Non
è bello ciò che è bello, ma è bello ciò che piace. Giù per terra non c’è pace,
ma il cielo tutto è blu. Guarda su, guarda su, guarda sempre più su. Dove
arriva l’ascensore là c’è il luogo dell’amore.”
Poi
PM10 svenne, forse per il troppo divinare o, molto probabilmente per l’additivo
schifosissimo che aveva aggiunto il padrone del catorcio a cui si era appena attaccato.
Flambé
capì che il matto maculato che non aveva mai visto prima aveva compreso.
Un
brivido gli corse lungo la schiena, quando l’altra nutria, quella intelligente,
svelò il mistero.
“Dobbiamo
andare in alto, nutrie.”
“In
alto, Jake?”
“Sì,
come Raf, come Don Picciotto. La mappa del Malandato come l’abbiamo vista
stamattina all’alba non è la mappa della città. Se la guardi con l’occhio, o
con gli occhi, del Malandato è la mappa sopra
la città.
“Gru, gru.
La nutria ha ragione.”
“Cra, cra.
E adesso?”
“Adesso
quando PM10 si sarà ripreso ce ne andremo al Parco Sempione.”
“Da
Liscione?” chiese Scolo lascivo e imbarazzato, pensando alle femmine dell’harem
e guardando Raf di sottecchi.
“No,
vecchia lenza, da Luca. Lui guarda le copertine e capisce tutto. Saprà cosa
fare.”
Capitolo 15
In
cui scompaiono persone come fossero edicole
I-guana
dormiva profondamente nel suo terrario, che di notte Giacomo lasciava aperto,
permettendole di girare liberamente per casa.
Si
era assopita dopo che la sua foto pubblicata su Instagram aveva raggiunto il
milione e mezzo di like. Galvanizzata da quei numeri aveva però scattato
un’altra foto, prima di addormentarsi: nella collezione di dischi di Giacomo ne
aveva notato uno fuori posto e ben strano, perché il vinile all’interno era
pieno di buchi, quindi inascoltabile. Si era ricordata di quando lui le aveva
raccontato che da bambino suo papà l’aveva portato più di una volta al
Planetario in corso Venezia, e le aveva spiegato di come ci si sedesse come al
cinema, tutto si facesse buio e di come le stelle e il cielo venissero
proiettati sulla volta di quel luogo meraviglioso. Giacomo ricordava poco del
suo papà, era piccolo quando era sparito, ma di quelle visite con lui al
Planetario parlava sempre con un entusiasmo intriso di viva nostalgia. Fu per
questa ragione che I-guana afferrò una mini torcia elettrica a led che Giacomo
usava come portachiavi della moto, la accese e la puntò al soffitto di casa,
poi afferrò il disco con le zampe, salì lentamente sul divano e lo tenne
sospeso sulla luce. Sul soffitto si proiettarono dei punti luminosi, come
fossero astri in una limpida notte d’estate. Ecco. I-guana resse il vinile con
una zampa e con l’altra scattò qualche foto con l’iPhone. Rimise tutto in
ordine, poi riguardò le foto, ne scelse una e la pubblicò. Cancellò le altre e
si addormentò.
Anna
entrò come un fulmine nella stanza di suo fratello.
“Dov’è
Luca?” chiese. Quasi lo gridò.
Giacomo
aprì un occhio, era sdraiato sul suo letto matrimoniale con materasso
ergonomico massaggiante ProNasa 2999,
ultimo modello adattivo proattivo modellante rassicurante, insomma un buon
posto in cui passare la notte.
“Chi?”
chiese con la voce ancora impastata dal sonno.
“Luca!”
“Ma
non era con te?”
“In
che senso?”
“Nella
camera degli ospiti, in quale altro senso?”
“No!”
Anna
e suo fratello si guardarono sbigottiti. Giacomo aprì anche l’altro occhio e si
sollevò dal letto, o meglio, il letto capì che lui si era svegliato e il
materasso con un impercettibile fruscio si modellò come una mano gigante e lo
accompagnò nell’assumere la posizione eretta. Una volta in piedi, si sgranchì
le gambe e pensò che Luca fosse sparito come soltanto gli homeless sanno fare,
senza un perché, all’improvviso, senza nemmeno salutare. Si sentono invisibili
e da tali si comportano. In fondo anche il loro padre era svanito allo stesso
modo e continuava a farlo, ma non per questo era maleducato o incivile o una
brutta persona. Viveva ai margini, e questo era il modo di stare in quei
margini che la società fingeva di non vedere.
“Sarà
andato via…”
“Senza
dire niente? Senza salutare?” protestò Anna.
“Anche
papà fa così.”
“Già.
Ma lui…”
“Lui
cosa?”
“Niente.
Non lo so. È strano.”
“Lo
so che è strano, te l’ho detto subito appena l’ho visto.”
“Non
lui. La sua sparizione. Non l’avrebbe fatto se non per un grave motivo. O forse
sentiva nostalgia del suo amico Bob. Gli aveva promesso che si sarebbero
rivisti al castello, al parco Sempione.”
“Bob?”
“Lascia
stare. È una lunga storia.”
“Sarà”
disse Giacomo. “Caffè?” chiese spostandosi in cucina.
Anna
si fece silenziosa, lo seguì, si sedette, aspettò e bevve il caffè con qualche
biscotto biocinestetico hawaiano e della frutta secca auto-reidratante all’olio
di Parma. Masticava come un automa, i suoi pensieri erano altrove.
“Vengo
con te” disse Giacomo “è mattina e ormai ho attivato la modalità on. Di tornare a letto non se ne
parla.”.
“Andiamo
al Castello Sforzesco, così vediamo anche la mamma.”
“E
se trovi il tuo amico ti calmi, sister? Me lo prometti?”
Anna
infilò il giubbotto. In una delle tasche si ritrovò fra le mani il biglietto
che Giorgio le aveva lasciato, quello con il suo numero di telefono. Decise di
farsi aiutare. Afferrò il cellulare, compose il numero e rimase in attesa.
“Chi
chiami?” chiese Giacomo incuriosito.
“Uno
che può darci una mano, una specie di poliziotto che sta cercando papà e tutti
gli altri…”
Al
cellulare rispose una voce maschile.
“Pronto?”
“Giorgio?”
“Sì?”
“Sono
Anna, la figlia del Malandato” rispose lei in tono concitato.
“Buongiorno,
Anna. Che cosa succede?”
“Luca
è sparito. O almeno credo. Dobbiamo vederci subito.”
“Aspettavo
una sua chiamata. Devo farle vedere una cosa. Dove si trova?”
“A
casa di mio fratello.”
“Okay,
la raggiungo immediatamente. Il tempo di arrivare.”
Anna
chiuse la comunicazione e subito le venne un sospetto. Fissò suo fratello
Giacomo.
“Perché
mi guardi così? Che ti ha detto?” chiese lui.
“Mi
raggiunge. Però…”
“Però
cosa?”
“Non
lo so, c’è qualcosa che non mi convince… Non gli ho dato l’indirizzo. Eppure ha
detto che viene qui. Sa che sei mio fratello. Sa dove abiti.”
“Non
hai detto che è una specie di poliziotto? I poliziotti sanno sempre chi sei e
dove trovarti… mi ricordo una volta, alle superiori, con alcuni amici avevamo
organizzato una megafesta in un capannone abbandonato in mezzo alla campagna,
una roba pazzesca, dovevi vedere, la voce si era sparsa in fretta e c’erano
studenti di tutte le scuole di Milano, saremo stati in tremila. Tutto bene fino
a che si presentano i poliziotti e due ispettori della SIAE, in borghese. La SIAE,
capisci? Ci hanno dato una multa pazzesca per via della musica suonata in
pubblico… E la polizia ci ha fatto sgomberare perché dicevano che il tetto del
capannone era pericolante. Insomma se quello è un poliziotto è normale che
sappia un sacco di cose.”
“Eppure
non riesce a trovare papà e gli altri… e adesso Luca… sarà sparito di sua
volontà o l’hanno rapito?”
“Sister,
stai serena, sei troppo nervosa, quel Luca è un tipo davvero strano, fidati di
uno che ha fatto della stranezza il suo lavoro.”
“Sì,
ma c’è qualcosa che non mi convince lo stesso, non saprei, è una sensazione… Aspettiamo
Giorgio in strada.”
“Come
vuoi”
Uscirono.
Anna si guardava intorno con aria sospettosa e batteva i piedi a terra
ritmicamente per sentire meno il freddo dell’autunno inoltrato. La luce della
mattina era debole, il cielo grigio li sovrastava. Giacomo reggeva il
trasportino imbottito con all’interno la sua I-guana.
Il
vecchio Fiat Ulysse nero frenò a ridosso del marciapiede. Ne scese Giorgio, che
guardò subito Giacomo.
“Lui
è Giacomo, mio fratello.”
“Piacere.”
Si
strinsero la mano.
“Quando
è sparito Luca?”
“Ieri
sera, stanotte, stamattina presto… Non lo sappiamo e non sappiamo se l’abbia
preso qualcuno o se ha deciso di andarsene all’improvviso”
“Siete
riusciti a trovare Carcarlo? Gli avete parlato?”
“Sì,
ci ha dato un indizio, una vecchia videocassetta, ma forse dobbiamo
risentirlo…”
“Perché?”
“Non
si capisce granché, sono tutti spezzoni di filmati in cui compare Don Giuliano,
il prete che gestisce il Refettorio, e si vede una vecchia recita de I Miserabili in cui nostro padre
impersona il protagonista, poi l’oratorio, dei vasi su un balcone, degli
aquiloni, i senzatetto, alcune edicole che vengono smontate…”
“Edicole,
avete detto? E poi?”
“Niente.
Fine. Più tardi vorrei tornare al Niguarda a parlare a Carcarlo, ieri quasi
delirava, diceva cose senza senso. Ma prima vorrei ritrovare Luca e sapere se
sta bene, se è tutto okay.”
“Impossibile”
disse Giorgio. “Almeno per Carcarlo”.
“In
che senso?” chiese Anna.
“È
sparito dopo la vostra visita! Mi è stato riferito dallo stesso infermiere che
avete incontrato al Niguarda. È sul nostro libro paga, doveva tenerlo d’occhio
e capire se qualcuno lo cercasse o volesse portarlo via, a parte voi intendo:
era stato avvisato che sareste arrivati per fargli delle domande.”
“Oh!”
esclamò Anna stupita.
I-guana
nel frattempo si era svegliata e ascoltava annoiata i discorsi degli umani,
nella notte i suoi followers erano aumentati di mille unità, niente male.
Giacomo invece rifletteva sul fatto che cercare persone che nessuno mai cerca o
vorrebbe vedere era un’impresa davvero molto complicata. Poteva essere uno spunto
per un nuovo videogame, ne avrebbe parlato con qualche suo amico specializzato
nel settore.
“Salite
sul furgone, devo farvi vedere una cosa…” disse Giorgio con fare misterioso.
Anna
e Giacomo salirono, e lui posò I-guana con delicatezza sul pavimento. Erano in
quello che sembrava un mini salottino per appostamenti, come quelli che si
vedevano nei film americani. Giacomo pensò all’istante che avrebbe potuto
abbandonare l’idea del videogioco per creare una flotta di furgoni a noleggio
con all’interno un mini bancone, un mini barman, divanetti, moquette, musica e
luci soffuse, insomma dei veri e propri mini night club, ideali per coppie o
per uscite serali di piccoli gruppi di amici desiderosi di tranquillità e
privacy, lontani dalla folla e dall’odioso problema del parcheggio. Lui era
fatto così, vedeva il business ovunque. Si sedettero, mentre Giorgio aprì un
cassetto e ne estrasse una vecchia rivista.
“Ecco
qua” disse stringendola fra le mani.
I
due ragazzi guardarono incuriositi.
“S
– RIVISTA SENZATETTO” era scritto a
caratteri bianchi su sfondo rosa, “semestrale, numero 7”.
“In
origine il colore era rosso” spiegò Giorgio, e si mise a raccontare dove aveva
recuperato quella pubblicazione. All’inizio
Anna e Giacomo non capirono, perché Giorgio la prese molto alla larga, poi
passò la rivista alla ragazza, “Legga. Pagina 23” disse.
Anna
la aprì, la sfogliò, a pagina 23 c’era una foto di Don Giuliano davanti al
Refettorio Ambrosiano, il titolo era Anche
i senzatetto hanno il diritto di esistere. Iniziò a leggere ad alta voce,
si parlava della storia del prete, per anni missionario in Africa, del problema
della sanità e dell’igiene, dell’alimentazione e della dignità di quelle popolazioni
povere ed emarginate. A un certo punto qualcosa le suonò familiare.
“Le edicole stanno scomparendo, è un
processo di consunzione che sembra inarrestabile. Negli ultimi anni le edicole,
che un tempo erano 38.000, si sono ridotte a meno di 20.000. Lo sai che con
quelle strutture che stanno smantellando noi in missione in Africa ci avremmo
potuto costruire un ospedale intero!”
“Nella
cassetta è stata ripresa in video questa intervista! Credo siano proprio le
stesse parole” disse Anna.
Giacomo
la guardò incuriosito e lei proseguì nella lettura.
“E così, mentre qualcuno sottoterra costruisce
una nuova linea della metropolitana, nella parte superiore scompare il chiosco
che vende i giornali. E qui sorge una domanda importante: dove vanno a finire
le edicole che chiudono e scompaiono dalla strada? Esiste un “cimitero delle
edicole”?”
“Ma che significa?” chiese lei.
Giacomo
guardava Giorgio, in attesa di una risposta.
“Non
lo so. Quello che so è che ho cercato questa rivista e l’ho trovata. Mi
ricordavo dell’intervista rilasciata da Don Giuliano appena diventato
responsabile del Refettorio, e ricordavo la copertina rossa.”
“Volete
dire che il prete potrebbe sapere molte più cose di quel che vuol far
intendere?” chiese Anna.
“Sarebbe
interessante parlare con lui. Ci pensate voi?”
Anna
si voltò verso Giacomo.
“Come
vuoi, sister: andiamo a fondo di questa strana storia.”
Lei
lo guardò con riconoscenza.
“Va
bene” disse poi a Giorgio. “Ma prima dobbiamo ritrovare Luca. Al parco Sempione
o in qualsiasi altro posto sia andato a cacciarsi”.
“Se
avete bisogno, chiamatemi. Sarò sempre nelle vicinanze.”
E
fu in quel preciso momento che Anna ebbe per la prima volta la chiara
sensazione di essere manipolata. Indirizzata. E insieme seguita. Pedinata. Per
dirla in una sola parola, si sentì in trappola.
Scese
in fretta dal furgone, e suo fratello la seguì col trasportino e I-guana.
Giacomo
le sorrise. “Andiamo al castello?”
“Sì”
disse lei, ma in realtà non sapeva cosa pensare: perché aveva avuto quella
brutta sensazione?
Il
cellulare nella tasca di Giacomo trillò con insistenza, lui lo prese e guardò
il display: era un messaggio di Instagram con le congratulazioni per l’ultima
immagine pubblicata, che aveva raggiunto in poche ore i due milioni di like.
La
visualizzò: era una specie di cielo stellato, e in un attimo si ricordò di
quand’era bambino, dei pomeriggi con suo papà al Planetario.
Gli
diceva: “Quando non ci saremo più, quando spariremo, saremo sempre lassù, in
cielo”.
E
gli sorrideva.
Capitolo 16
In
cui se si vuole ci si capisce
Il
sole batteva pallido sul cespuglio di rovi che la gattara portava sulla testa.
Erano quasi le undici, e quella mattina la donna s'era attardata con le sue
bestiole, aveva preso posto su una panchina e s'era messa ad aspettare. Doveva
avere un appuntamento, e quell'appuntamento allora s'erano messo ad attenderlo
tutti, i gatti da una parte, le nutrie pendolari dall'altra. Liscione scrutava
le vie d'accesso, in attesa anche lui di qualcosa.
La
piccola carovana attraversò il centro della città, in barba alle bizzarrie
della metropoli, ai vigili urbani, ai semafori cangianti. PM10 ciondolava
strafatto sorretto da Scolo, in testa guidava Jake che seguiva Raf la
cornacchia che faceva strada dall'alto, in esplorazione. Appresso, un piccolo
stormo di piccioni, Don Picciotto e tutta la sua corte stretta, e le sue
guardie. I piccioni reggevano tra le zampe i dischi, la scatoletta con gli
occhi di vetro, la mappa e lo strumento di PM10. Alfine all'orizzonte si
profilò il Castello, e Jake sentì qualcosa ribollirgli nel sangue, un'emozione,
un'attesa. Anche Scolo, pensando alla colazione di Liscione, sentì qualcosa di
meno romantico brontolargli nello stomaco.
Se
Giacomo avesse accettato di prendere un tram, avrebbero impiegato meno tempo,
ma era fissato col car sharing, il noleggio d'auto condivise che ormai
imperversava in tutta la città. Anna, lui e l'I-guana avevano girato a piedi
seguendo la mappa sul telefono per venti minuti alla ricerca dell'auto adatta,
Giacomo usava solo BMW o Smart. Una volta individuatala, Anna aveva dovuto
attendere che Giacomo disinfettasse tutto il volante e la leva del cambio col
Napisan – “non puoi immaginare che ci
fanno dentro queste auto le persone, sono alberghi ad ore, sono” – e
solo allora, finalmente, erano partiti, a tutta gomma, velocissimi, incuranti
di limiti e semafori, ché la tariffa era al minuto!
La
cornacchia spuntò oltre il rovo di capelli. Liscione socchiuse gli occhi, si
chiese se non si stesse sbagliando, eppure sembrava proprio quella cornacchia...
Jake lo salutò con entusiasmo, alla sua maniera: “Ehi, Dentone!”.
“Per
l’immensa beltade della Castorina... siete proprio voi!”
“Certo,
Liscione! Sembra una vita che non ci vediamo, eh?”
“Ed
è passato solo un giorno!”
“Ciao,
vecchia lenza...”
“Scolo!
Che t'è successo?”
“Ratti.
Ma te lo racconterò solo dopo aver bevuto una Ruttaforte, amico mio!”
Giunsero
anche i piccioni, ma si fermarono distanti da quel nugolo di nutrie e gatti che
non si presentava certo come la loro compagnia ideale. La gattara si levò dalla
panchina e prese a distribuire croccantini vegani ai nuovi arrivati. Scolo ci
si avventò assieme a PM10, che era in fame chimica. Solo Jake tentennò, e
chiese: “E Luca? Si è visto, Luca?”.
Flambé,
che seguiva, felino, la compagnia dal Tombone di San Marco, con un'ampia
manovra andò a confondersi tra gli altri gatti. Aspettava.
Giacomo
parcheggiò il BMW sulle strisce pedonali e in un lampo si calò dall'auto. Anna
scese senza fretta, e lui le disse: “Presto, presto!”.
“Ma
cavolo, Giacomo, ti mancano due euro per prenderla con calma?”
“Sciocca!
Non sai che il vero milanese sa fare da Famagosta a Comasina in car sharing con
meno di tre euro? Cosa penserebbero i miei followers se venissero a sapere che
ho speso due euro e mezzo da via Savona a via Arco?”
“Sarà...
comunque, andiamo, la mamma ci starà aspettando!”
Quando
Jake vide giungere Anna, attraverso i cespugli e gli alberi, sentì un tuffo al
cuore: Luca doveva essere l'ombra con lei. E invece quell'ombra aveva una barba
lunga e curatissima, indossava una specie di pigiama scuro e stirato, e di Luca
neanche l'ombra, appunto.
Anna
s'avvicinò a sua madre. “Ciao, mamma.”
“Ciao,
amore. Tutto bene?”
“Sì,
sì. Hai visto? È venuto anche Giacomo: stiamo cercando insieme il papà!”
“Oh,
bravi, bravi. Avete visto quanti nuovi gatti ci sono, qui?”
Anna
si strinse nelle spalle. “Già. Ascolta, mamma, hai visto Luca, quel ragazzo che
era qua ieri mattina?”
“No.”
Quel
“no” pesò come la falce della
Grande Nutria sul petto di Jake. Luca doveva essere con Anna, e ora anche lei
lo cercava, come se si fosse perso. Ma non poteva essere altrimenti: Luca non
avrebbe mai abbandonato Jake! Se si fosse allontanato di propria volontà,
comunque sarebbe venuto all'appuntamento col suo amico peloso. Doveva essergli
capitato qualcosa. Jake si avvicinò ad Anna, e la accarezzò con la testolina.
“Bob!”
“Ma
quella è una nutria!” esclamò Giacomo.
“Sì,
è la nutria di Luca. Bob, Luca è sparito! Tu sai dove potrebbe essere?” chiese
Anna, inginocchiandosi di fronte al baldo roditore. E Jake avrebbe voluto
risponderle: “No, pensavo fosse con te, ero tranquillo, e invece ora chissà che
gli è capitato, Santa Nutria!”.
“Se
n'è andato su...”
Chi
aveva parlato? Anna non poteva essere... perché non poteva capirlo. Ma chi
aveva parlato?
“Io
l'ho visto. È uscito sul balcone, e se n'è andato di sopra. Non so come. Eppure
l'ha fatto.”
La
voce veniva dal trasportino che l'uomo con la barba recava con sé. Jake guardò
meglio: dentro c'era una grossa lucertola. “E tu chi sei?”
“Oh,
chiamami I-guana, per favore. E tu?”
“Io
sono Jake, e Luca è il mio umano!”
“Il
mio è questo ragazzone qua, è in gamba e generoso, ma senza di me sarebbe
perso...”
“Come
Luca senza di me!”
“Non
mi dà quell'idea, il tuo umano. Non sottovalutarlo...”
Jake
ebbe un moto d'orgoglio a sentir parlare così del suo Luca: “Ma senti... come,
se n'è andato su?”
“Su.
Sopra. Sopra la città. Non lo so. Sono un’iguana, mica l'Unicorvo...”
“E
ora, come lo troviamo?”
“Dovremmo
far capire a questi due dove cercare.”
“Noi
abbiamo una mappa. Crediamo che indichi i posti dove si nascondono i barboni
scomparsi. Si legge con la luce.”
“Ah,
ecco cos'era. È nei dischi musicali?”
“Sì!
Come fai a saperlo?”
“Ne
ho trovato uno in casa nostra.”
“Ma
chi è il tuo umano?”
“Si
chiama Giacomo. È il fratello di Anna...”
“Il
figlio del Malandato!”
“Esatto!”
“Ehi,
vecchia lenza, hai trovato la fidanzata?”
“Oh,
Scolo, vieni qua! Luca è sparito! È finito di sopra! Dobbiamo far capire ad
Anna che abbiamo la mappa!”
Flambé
studiava la scena da lontano. Quei maledetti stavano capendo tutto.
“Vostra
piccionità! Per favore, vi chiediamo umilmente di portare qui i dischi e gli
occhi!”
“E
così sia: piccionotti, portate al nostro amico quel che ha chiesto...”
I
piccionotti planarono di fronte ad Anna, Giacomo, la gattara e animali vari,
recando tra le zampe i dischi forellati, la mappa e gli occhi del Malandato.
Giacomo
strabuzzò gli occhi e si spettinò la barba: “Ma cosa...?”.
Anna
guardò Jake: “Che cosa vuoi dirci?”.
Jake
grattò con la zampina la copertina del disco con il prisma multicolore. Giacomo
sbigottì: “Ma quello è The Dark Side of
the Moon dei Pink Floyd, uno dei dischi di papà che non trovavo più!
Pensavo me l'avessero fregato in un locale! Come può averlo una nutria?”.
“E
quelli sono... occhi?” Anna ne afferrò uno, lo guardò controluce. “Sono occhi
di papà!”
Ecco:
come poteva sembrare normale che una ragazza, suo fratello con un'iguana e sua
madre si fermassero in pieno centro a tentare di comunicare con una nutria,
accompagnata da altre nutrie alquanto bislacche, una cornacchia e un commando
di piccioni? I passanti non credevano ai propri occhi. Gli spacciatori del
parco Sempione si chiesero se qualcuno avesse messo in giro qualcosa di troppo
forte e loro non ne fossero al corrente. Qualcuno chiamò la polizia e qualcuno
la neurodeliri. Qualcuno studiava la scena da un Ulysse nero parcheggiato
lontano, nascosto. Qualcuno la osservava confuso tra altri felini come lui, con
solo una coda in più. Fatto sta che la mamma, la gattara, la moglie del
Malandato, disse finalmente qualcosa di sensato: “Non qui, ragazzi. Andiamo a
casa. A casa”.
Fu
così che Giacomo rinoleggiò il BMW parcheggiato male, e ci caricò sopra sua
sorella, sua madre, la sua iguana e tre nutrie. Jake salutò Liscione e Scolo
con un po' di risentimento guardò Raf unirsi allo stormo di piccioni, per
seguirli dall'alto. Non gli piaceva come Don Picciotto guardava la sua
cornacchia.
Il
BMW sgommò in direzione Tortona 13. Un vecchio Ulysse nero gli si fece
dappresso.
E
Flambé perse di nuovo le tracce delle nutrie. Ma tutto ciò gli faceva una
vibrisse: era un gatto che aveva attraversato l'Inferno, e sapeva che li
avrebbe ritrovati.
Quando
Flambé arrivò a casa era l'ora di pranzo e al Refettorio i senzatetto erano in
fila. Quelle nutrie avevano un sacco di risorse e avevano capito quasi tutto.
“Oh,
caro il mio Flambé” disse Don Giuliano prendendo in braccio il gatto
dell’oratorio “chi non muore si rivede. Sempre a bocca asciutta torni tu, vero?
E io che credevo che niente nuove buone nuove. Mascalzone, non mi dovrai dare
qualche dispiacere per caso? Vieni, vieni in canonica che ti darò una razione
abbondante di croccantini. Ah, che fai, mi soffi? Non ti preoccupare, Flambé,
sono io, Don Giuliano, quello che ti ha salvato quando quei ragazzacci avevano
deciso di darti fuoco.”
VIA AI NUOVI SUGGERIMENTI! ASPETTIAMO I VOSTRI SPUNTI SUL FINALE DEL ROMANZO ENTRO LE ORE 12 DEL 30 MAGGIO QUI E SU WWW.STRASTORIE.IT.
DELLA QUARTA QUI: