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"Gli irregolari di 500 Street", GAL e basta
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Capitolo 6. Un’improbabile affidabilità
PorNuo District, sabato prima dell'alba
I lembi dei mantelli svolazzano
provocando un inquietante sussurro, mentre la città, ai loro piedi, appare
inferma, paralizzata, murata. La Congrega della Teppa, riunita sul tetto di un
palazzo in località segreta ovvero sulla Torre dell'UniCredit in Garibaldi, o
Isola, o Porta Nuova/PorNuo District, assiste, ammutolita. Se non è opera del
Divino, se non è un accadimento sovrannaturale, quello che sta succedendo
dimostra che, tra le forze in campo, deve esserci qualcuno che possiede una
potenza inaudita, col quale il confronto è impensabile.
«Se non aprivano i varchi, non
avremmo potuto riunirci.»
«Il mio contatto in Regione dice
che potrebbe essere una rappresaglia russa...»
«Fratello Balabiott, licenzia il
tuo contatto.»
«Da noi, in Comune, non sappiamo
che pesci pigliare...»
«Fratelli... calma. L'unico
autentico problema è che non sappiamo chi abbia combinato tutto questo.
Sicuramente sarebbe un avversario temibile, ma non sapendo chi sia, non
sappiamo nemmeno se considerarlo un nemico.»
«Una volta ho trovato uno a letto
con mia moglie. Quello mi ha chiesto scusa, mentre si rivestiva, e io gli ho
risposto: si vede che non conosci bene mia moglie, perché io ti ringrazio.»
«Che vuol dire, Trani?»
«Vuol dire che comunque ero
cornuto. Chi ha fatto questo, anche se avesse una comunanza d'intenti con noi,
che non rilevo, sarebbe in ogni caso uno scomodo alleato, troppo potente per
essere contraddetto.»
«Hai ragione, Trani... ma... è
vera la storiella su tua moglie?»
«Ah, sulla moglie ha ragione, ma
non ci ha mai beccati...» borbotta il Busecca.
Mentre il sole si leva, la Torre
proietta la propria ombra sulla città, e a quella silhouette si aggiungono due
figuri in tunica, Michetta e Trani. Trani solleva un braccio e gioca a far
afferrare alla propria ombra il Cimitero Monumentale. Michetta sbuffa. «Bezos
ha inviato a Milano 200.000 droni per le consegne. Sono arrivati stanotte.»
Trani con le mani crea un'ombra
cinese a forma di tirannosauro, e le fa divorare Chinatown, quello che una
volta era il ghetto cinese e oggi è una splendida passeggiata attorno a una
ravioleria e un'enoteca. Il dinosauro si muove vorace, scavalcando i muri
agilmente: «Da lunedì i lavoratori tornano tutti in smart working. Quel che
abbiamo imparato dalla pandemia dà i suoi frutti...».
«Non tutti i mali... in fin dei
conti, pure questi mattoni...»
«Già. La 'ndrangheta ci andrà a
nozze. Gramellini potrà fare un sacco di editoriali. Il Comune li userà come
scusa per ogni disservizio. Insomma, qualcuno ci guadagna sempre, no? Uh, sta
arrivando la colazione...»
Il drone atterra alla posizione
data tramite Google, lasciando una scatola contenente caffè e brioche. Michetta
brontola: «Avevo ordinato il mokaccino, non questa roba qui!».
Ma il drone non aspetta la mancia,
e sta già tornando al bar.
ANo District, sabato mattina
Jonathan Thoughts richiude lo
zaino e se lo mette in spalla, mentre passa uno stecco di liquirizia da un lato
all'altro della bocca. Denali lo osserva e si rende conto che non ne capisce
l'età, sembra giovane e vecchio, né la statura, sembra altissimo e basso, né il
peso, sembra leggero e massiccio. Si rende conto che Jonathan Thoughts non è
reale, non può esserlo, non è allucinato, è un'allucinazione, Jonathan Thoughts
è uscito dai fumetti, Jonathan Thoughts è l'unica speranza a cui appigliarsi.
Forse per questo è irreale.
«Ce la fai col bambino?»
«Questo marsupio è un'eccellenza
per gli esperti del portare, l'ho preso alla Bottega delle Bef...»
«L'importante è che tu ti senta a
tuo agio. A Dakar ho accompagnato un gruppo di donne coi bambini fasciati
addosso, anche più di uno, e si muovevano meglio di me. Che personaggio, Dakar…
Va bene, senti, ora scendiamo e studiamo la situazione. I segnali di fumo
dicono che stanno aprendo diversi varchi, e che addirittura alcune auto stanno
riuscendo a uscire dalla città.»
«I segnali di fumo?»
«I segnali di fumo. Quelli.»
Jonathan Thoughts indica alcune
colonne di fumo, sbuffanti da un paio di angoli dell'orizzonte: «Molto più
riservati, e permettimi, affascinanti, di qualsiasi chat su Whatsapp».
«Riservati?»
«Be’, quel che passa in rete
appartiene ai suoi signori. Una setta che possiede ogni tuo dato, inclusa la
posizione. Quel che sale in cielo, appartiene a Dio. E colleghi. Andiamo?»
Jonathan Thoughts fronteggia il
muro. Sta lì, a gambe divaricate, come un cowboy in un duello. Lo fissa, quasi
volesse bucarlo con lo sguardo. Allunga una mano, poggia il palmo sulla
terracotta. Ascolta. Denali pensa possa essere questa l'occasione giusta per
fuggire e far da sola, far seriamente. Eppure quel tipo, un po' Pippo e un po'
pirla, ha qualcosa che infonde fiducia. Un’improbabile affidabilità. Ora Denali,
infatti, pensa che il muro si aprirà come un sipario, si sgretolerà, farà
qualcosa di incredibile e li lascerà passare. C'è tempo, per questo.
«Stanno aprendo una breccia una
cinquantina di metri più in là: andiamo!» la informa con entusiasmo Jonathan
Thoughts.
In effetti il NUIR, Nucleo intervento
rapido del Comune di Milano, sta lavorando sodo. Supportato e sostenuto da
schiere di cittadini volontari con picconi e mazzette, attorniati da frotte di
pensionati e umarell che, braccia dietro la schiena, li osservano e commentano
il lavoro, ce la mettono tutta ad abbattere le barriere. A volte con
frustrazione, perché tirano giù pareti che in men che non si dica risorgono
insistentemente, da cui il rielaborato proverbio “testardo come un muro”. A
volte con soddisfazione. A volte con malizia, come il tipo che ne ha approfittato
per abbattere il muro delle Poste, o quell'altro che è sbucato in un centro
massaggi orientale. Comunque, il NUIR abbatte e non s'abbatte. Diversa è la
situazione per tutti i manovali assunti nelle migliaia, forse decine di
migliaia, di imprese edili meneghine: l'ordine è di non muovere attrezzo se
prima il Comune non riconosce un compenso, che sia pure uno sgravio fiscale.
La popolazione è bloccata, ma non
si ferma. Il social sfoggia foto e video di muri e altri fenomeni, il Popolo
dei Balconi reintona il suo inutile carme, Amazon registra un picco nella
vendita di tapis roulant, ci si chiede ovunque quanto durerà questa situazione
e i tiktoker dicono che ne usciremo migliori.
La chiesa dell'Annunciazione è
tutta in mattoni rossi e si confonde in un affresco murario arancione dal quale
emerge un Cristo Risorto che dà l'idea di non volersi fermare a lungo. Denali
accarezza Ettore sulla testolina, mentre segue Jonathan Thoughts, che di fronte
al nuovo muro si rivolge direttamente all'effigie di Gesù: «Ehi, socio, per
favore, fai tu?».
Nel muro si apre una breccia, e
Thoughts commenta, divertito dall'espressione stupefatta di Denali: «Non lo
conosci? È sempre stato un ragazzo disponibile, basta essere gentili...».
Denali avverte uno sconvolgimento
fisico, lo spaesamento assoluto di quando si assiste a qualcosa di impossibile
che però, tant'è, avviene. Una volta aveva visto un fantasma, ad esempio, un
edicolante alcolizzato morto le aveva attraversato la strada davanti, e ormai
erano mesi che tutti sapevano che era morto, e che l'edicola aveva chiuso
perché era morto. Ma la spiegazione, all'epoca, era semplicemente che le parole
l'avevano sepolto prima della cirrosi, era stato ricoverato, in parte
recuperato, ma l'edicola era fallita. Non aveva mai visto qualcuno pregare,
peraltro senza ritualità particolari, e venire esaudito all'istante.
D'altronde, non aveva mai assistito nemmeno al fenomeno dei muri che crescono
come funghi. Ma Ettore sta bene e ridacchia e, che sia grazia ricevuta o
follia, Denali decide che va bene così.
Su viale Enrico Fermi una
mastodontica coda di automobili occupa tutte le corsie in uscita da Milano,
procedendo lentamente e quasi mai fermandosi. Alcune ambulanze stanno lasciando
il pronto soccorso del Niguarda, con l'idea di riuscire a raggiungere altri
quartieri e istituire delle sorte di ambulatori mobili.
Jonathan Thoughts, per prima cosa
dopo aver individuato e raggiunto piano e reparto, si avventa sulla macchinetta
della bevande e prende un caffè con il cioccolato. Denali ed Ettore si lanciano
verso la stanza dov’è ricoverato, da neanche un'ora, Marco: «Come fate a essere
già qui?».
Denali si rende conto che non sono
trascorse nemmeno tre ore dall'assunzione in cielo di Marco: «Ci ha accompagnati...»
e, roteando il dito puntato alla tempia, ammicca al sopraggiungente Jon Thoughts.
«Non deve essere tanto citrullo,
se vi ha portati qua!»
«No, anzi. Parla coi muri, con
Dio, compie miracoli, mastica liquirizia ed è molto attento e cordiale. Temo mi
paia pazzo proprio per queste ultime caratteristiche...»
Marco ride, poi si rivolge a
Thoughts: «Grazie, per averli condotti qui!».
«Non c'è di che, anzi... Che ha
fatto, quel tipo lì?»
Nella stanza di Marco, Denali lo
nota solo ora, c'è un altro degente. Dorme profondamente, ha delle flebo
attaccate e una vistosissima bendatura sul cranio. Sul comodino, dei fiori
stanchi e la foto di una famiglia felice.
«Mah, non ho capito benissimo, poi
chiedo meglio» dice Marco. «Credo che sia un dipendente del Comune che, durante
un sopralluogo in cantiere, è stato colpito alla testa da qualcosa, forse un
mattone... ma sai, ora diamo la colpa ai mattoni di tutto... e se c'è un
incidente li guardiamo col sospetto che questo sia premeditato, e i mattoni
diventano anche assassini.»
«Be', tu sei stato aggredito da
una parete di mattoni, Marco!»
«Dài, Den, semplicemente un muro
pericolante di mattoni spontanei mi è crollato addosso. Non credo volessero
uccidermi.»
«Vatti a fidare. Sono matti questi
mattoni.»
«Buona questa, ragazza! Amici,
ascoltatemi: io debbo andare, il dovere mi richiama. Qui siete al sicuro, e...
facciamo così.»
Jon comincia a rimestare nello
zaino, finché non estrae un razzo di segnalazione: «Vi lascio alcune carte. In
caso la situazione peggiorasse e io non dovessi tornare, vai sul tetto dell’ospedale
e lancia questo razzo, per favore. Se io non potrò venire, comunque quelli
dell'Osservatorio verranno a recuperare il mio diario e altre informazioni
utili che ho raccolto. Ti va?»
Denali guarda il razzo, guarda
Jonathan Thoughts, guarda le finestre, l'uomo con la testa fasciata, Marco,
Ettore. Sorride. «Come potrei dirti di no? Però... salirò con le scale!»
Jonathan si esibisce in un
inchino e si allontana a grandi passi lungo il corridoio e giù per le scale. Marco
abbraccia Denali ed Ettore.
Sono quasi le due.
PorNuo District
«Uè, Michetta, ma sei stato qui
tutto il giorno?» chiede Fratello Trani emergendo sul tetto della Torre di
Unicredit.
«Lascia perdere! Alùra, che si
dice?»
Trani è distratto, il sole ha
scavalcato la torre e dunque gli permette di proiettare ombre cinesi su una
nuova parte della città. E mentre contorce le mani per produrre il piccione
gigante che oscura con le proprie ali il Quartiere Arcobaleno, osserva la città
che avrebbe voluto fortificare. Nugoli di droni che si avvicendano in migliaia
di consegne, muri che compaiono, scompaiono, resistono, s'abbattono, colonne di
fumo, rumor di cantiere, odor di kebab.
«Ma... Michetta! Cos'hai fatto?»
«Ho ordinato un kebab, che il poké
l'è una roba complicata...»
«Sant'Ambroeus, perdonalo, perché
non sa quel che fa.»
«Alùra?»
«Alùra... nessuno sa niente,
senonché pare che il Governo abbia inviato un qualche ispettore di qualche
sezione speciale per studiare il fenomeno, il Vaticano non si è pronunciato ma
ti dico che sicuramente ha già qualche tonaca nascosta in giro, e gli
scienziati non spiegano nulla. I muri ci sono, nessuno sa perché, nessuno sa
percome, ma tant'è.»
«La Loggia del Terùn?»
«Michetta, quelli sono inoffensivi,
è una trovata per ridere e organizzare le serate polenta e 'nduja!»
«Non mi fido.»
«Stai mangiando un kebab.»
«Sì, ma mi han detto che la carne
è tedesca...»
Rainbow District, toilette del
Mono Bar
Dall’altra parte del muro sorto
nella toilette del Mono Bar giungono altri rumori, e tutti gli avventori,
stremati dal lungo, retorico, prolisso monologo di Ray Lights si accalcano a
rimirare il prodigio.
All’improvviso il muro nella
toilette produce uno schiocco secco
e, come le porte scorrevoli della metropolitana, si apre, mostrando un tipo
alto e basso, giovane e vecchio, che sorride a chi lo attende: «Salve a tutti,
non allarmatevi! Sono un agente dello Stato... oddio, così forse vi
preoccupate... Niente: mi chiamo Jonathan Thoughts e vi invito tutti a lasciare
il locale e ad allontanarvi da quell'uomo!».
Il dito di Thoughts indica Ray Lights.
Il viso di Lights si corruga in
una maschera demoniaca: «Maledetto!».
«Ray! Non puoi approfittarne
sempre!»
Un gentil signore, facente parte
del pubblico cosciente della pubblica orazione, si permette: «Mi scusi, ma lei
si sta rivolgendo a Ray Lights, una indiscussa autorità nell'ambito de...».
«Ray Lights è un'entità malevola,
esperta nello stendere il filo spinato là dove gli uomini abbattono i muri!» lo
interrompe serio Jonathan. «Scommetto che ha ciarlato in inglese anche
stavolta, vero?»
«Ma è la sua lingua...»
«La sua lingua è biforcuta! Ray
Lights, ti dichiaro...»
Un rumore sinistro comincia a
emergere dalla toilette. Non un semplice water otturato... qualcosa di più...
clamoroso. Jonathan lo sente, ruota su se stesso, va a controllare e torna
indietro di gran corsa: «Fuori tutti! Fuori! Fuoriiiiii!»
L'eruzione di mattoni sconvolge
gli avventori del Mono e i passanti. L'aperitivo è inviso, a quanto pare, ai
mattoni. Nessuno si fa male, solo un tumultuoso spavento, durante il quale Ray
Lights scompare. Jonathan Thoughts sussurra: «Spero di non vederlo più, quel
rettile... invece lei...».
Passa la liquirizia da un lato
all'altro della bocca e, tra i curiosi sopraggiunti a vedere quel vulcano di
mattoni, Jonathan individua una turista orientale, le si avvicina e dice: «Ehi,
io ho conosciuto il suo bisnonno!».
«Sorry?»
«Ho conosciuto il suo bisnonno!
Lei non è la nipote di Ho Chi Minh?». La turista lo guarda perplessa e lui
ripete in inglese: «Are you Ho Chi Minh’s
great granddaughter?»
«Yes. I'm looking for the wall with the plate, the house where my grandfather
lived in Milan.»
«Oh, I see... It’s not in Porta Venezia, it’s in Porta Nuova!»
«Oops... It’s the wrong door!»
«It’s always the wrong door, if
you keep it closed.»
Teresio
Dei cerca la via di casa, ma trova soltanto muri intorno a sé, l'invasione è
peggiorata. Tenta una strada, poi un'altra, niente. Il rito festoso
dell'aperitivo si tramuta in una escalation d’euforia incontrollata, gli spritz
paiono le lanterne del popolo che insegue il mostro di Frankenstein. Come in
quell'occasione, però, il mostro è il popolo della metropoli, e oltretutto qua
non c'è nessun mostro da braccare. Ray Lights vaga felice in questa bolgia, un
ghigno estasiato. Teresio Dei attraversa tutto con distratta rassegnazione, ha
già i suoi guai a cui badare, i mattoni son soltanto una contingenza, come la
pioggia. E anzi, quando non ne può più del caos e della fatica, intravede l'ingresso
del cinema Arcobaleno e vi si imbuca, ambendo alla tranquillità solitaria di
una poltrona in ultima fila.
Lì, nel buio della sala, l’universo ritrova il proprio
equilibrio. Teresio è avvinto dal film finché, sul più bello, non gli squilla
il telefono che nella confusione aveva dimenticato di silenziare.
Capitolo
7. Gli irregolari di Cinquecento Street
South
Porta Romana
sabato
mattina
Rafe'
arriva a South Porta Romana dopo un lungo volo e osserva il quartiere sotto di sé.
Qualche
muro è sorto anche lì, ma dall’alto si ha come l’impressione si tratti di una
specie di fortificazione, che costeggia il grande cavalcavia di viale Puglie
fino a viale Omero e Fabio Massimo, giù verso Chiaravalle. Il muro lì si
interrompe in direzione del parco agricolo Sud Milano, all’altezza del vecchio
borgo di Nosedo, e riprende poco dopo via San Dionigi fino all’imbocco del
distretto di Porta Romana, tagliando di netto Corso Lodi e l’omonima grande
piazza.
Più che un muro per chiudere dentro la gente
del blocco, Rafe' lo interpreta come la costruzione di qualcosa che vuole
tenere fuori il centro dalla periferia. Una porzione di città poco distante
fisicamente dal glamour della Metropoli smart, ma concettualmente incompatibile
con il nuovo sviluppo imposto dalla modernità. Qualcosa che vuole preservare la
veracità di queste vie così malandate, però piene di vite.
Il quartiere, dal canto suo, è piombato in
quella particolare condizione in cui tutto sembra fermo e calmo, ma in realtà
si tratta dell’apparente quiete di un felino che dorme con un occhio aperto.
Ogni angolo sgocciola la stanchezza della
notte passata, come un cartoccio di olive. Fino a poche ore prima, tutto è
stato controllato dalle vedette del blocco, ragazzi più o meno grandi che
riconoscono una guardia a oltre duecento metri di distanza. Adesso i pusher si
sono già ritirati da un pezzo, dandosi il cambio con i muratori egiziani che si
incamminano verso il cantiere. L’ombra di una porta mezzo aperta di un bar
cinese, cotto come un raviolo al vapore, disegna con la luce del giorno una
specie di torta di asfalto, senza zucchero a velo però. Qualche donna dell’Est esce piena di borse e
borsoni per una spedizione in un quartiere lontano e si ostina a chiamare casa,
nonostante tutto, queste quattro vie mezzo
cadenti e mezzo no.
Qua e là i resti di qualche tafferuglio
scoppiato nella notte. Una parola mal detta a causa di una
bevuta di troppo, oppure una partita di roba non pagata in orario, o più
semplicemente il principio o il distorto senso dell’onore, di solito, scatenano
la faida. Insulti, gesti, altri insulti, la chiamata a raccolta di compagni e
amici, e le inevitabili mazzate. Tirate pressoché a caso, più per farsi vedere
che per offendere realmente. Solo che queste manifestazioni necessarie e
sistemiche per mantenere l’igiene microcriminale del quartiere portano sempre
guai. E da queste parti i guai sono sinonimo di forze dell’ordine e ufficiali
giudiziari.
Rafe', con la fede di Nino nel becco, si
infila nella sua voliera sul balcone e pensa di riposarsi prima di portare il
suo pegno ad Annarella. È di otto mesi e, in queste condizioni, le emozioni
vanno dosate. Poi si rende conto che non può aspettare. Abbandona la sua comoda
voliera, si accosta al vetro e picchietta con il becco e con l’anello per
attirare l’attenzione della moglie di Nino.
Quando Annarella si accorge di Rafe' che
lascia la fede di Nino sul pavimento si blocca.
«Uh, Gesù» dice, si fa il segno di croce e
principia a smozzicare qualche preghiera per il suo povero Nino. Il ragazzino
in pancia le rifila tre belle botte, come a dirle che papà suo è una garanzia e
non c’è da preoccuparsi. C’è però da chiamare all’avvocato Turco. Che è Turco
di nome e di fatto, per quanto fuma. E pure perché quando arriva lui, in
Tribunale, tutti gridano “mamma lu Turco!”.
Quello che Annarella non vede è che Tonino,
il più grande dei suoi figli, si è appostato arrier’ alla porta della cucina e
ha capito tutto.
Papà suo sta in pericolo e ora tocca a lui
fare l’uomo di casa.
ANo
District
Sabato
a tarda sera
L’Assessore,
l’Ambrogio, è incazzato come un’ape.
Ronza
intorno a Nino, manco fosse un bel margheritone di campo carico di polline
succulento, e sputazza parolacce e imprecazioni verso tutto il globo
terracqueo.
«Ma
guarda te se dovevo finire a fare la balia a un rubagalline come questo pirla
qui. Porco d’un cane ladro, te sei più naso che cervello e per di più sei anche
stitico. Senti, c’hai lo stimolo? Hai finito gli spinaci con le erbette?»
«Assesso’,
ho finito tutto ma gliel’ho detto io sono uno che è un orologio a casa propria.
Ho necessità dei comfort miei, le mie comodità. I miei vizi, assesso’. Fuori,
io non la faccio. E pensi che problema i primi mesi quando mi è capitato di
finire ospite dello Stato. A tanto così dall’infermeria mi sono sbloccato! Poi,
se mi posso permettere, assesso’, ’nu secchio pe’ cantero è proprio ’na
fetenzia.»
«Senti,
caro il mio fighetti, intanto parla come si deve e mettici meno regionalismi.
Io sono uno che chiama le cose con il loro nome, ci siamo intesi? Quindi,
adesso cerchi di concentrarti e di buttarmi fuori ’sta benedetta pendrive, altrimenti
ti faccio fare un discorso dal compagno Kalashnikov, chiaro? Dentro lì c’è la
mia assicurazione sulla vita, ci siamo spiegati?»
«Assesso’,
allora state proprio nella merda!»
South
Porta Romana
Sabato,
tarda sera
Tonino ci ha messo meno di un giorno a tirare
su la sua banda, però ha fatto un buon lavoro.
Adesso,
al riparo nel cortile di via dei Cinquecento, sta aspettando che i suoi compagni
d’avventura arrivino per andare a salvare a papà suo.
Mammà non si deve preoccupare, non serve
nemmeno chiamare l’avvocato Turco, che l’ultima volta le ha pure rinfacciato
una parcella non pagata, ci pensa lui a fare l’uomo di
casa.
Il
piano di fuga è semplice quando efficace.
Si
è coricato al solito orario, fingendo pure di fare storie che in televisione ci
stava l’Isola dei famosi. A mammà non
gliel’aveva mai detto che a lui quella con quei due canotti al posto delle
menne gli faceva venire il sangue bollente, che non voleva farla ’ncazzare.
Quando
i suoi fratelli già se la
ronfavano della grossa, Tonino ha fatto il fagotto sotto alle coperte
del suo letto a castello, si è infilato le scarpe che a letto c’era andato già
vestito, ha preso il giubbino e lo zainetto ed è sceso in cortile. La porta
l’ha aperta e chiusa senza far rumore, che papà suo gli ha insegnato bene come
si fa. Giù, adesso, alla chetichella si sta facendo i conti della roba che ha
messo nello zainetto. I ferri per lo scasso, la torcia grossa, quattro pagnottielle
ripiene coi friarielli e la provola, rigorosamente senza il maiale che Sayed
non può, e due fumogeni azzurri che Nino si era comprato perché il Napoli era
bello primo in classifica e, senza scaramanzia, teneva lo scudetto già cucito
sopra alla maglietta.
La
banda è composta da altri tre ragazzetti del blocco: c’è Zao, il figlio quasi
tredicenne del cinese di via Bessarione che ripara tutti i dispositivi
elettronici del quartiere. Un tipo dritto. Capelli a scodella, neri come le
penne di Rafe', gli occhiali da miope e il tocco magico per tutto quello che è
digitale. Gira sempre con un tablet, modificato da suo padre, con il quale è in
grado di craccare i monopattini e le bici che si trovano per strada.
L’uomo
forte è Sayed, il figlio del macellaio di via Polesine. Ha dodici anni, ma è
alto quasi un metro e sessantacinque e stazza una settantina di chili sani
sani. Naso egiziano, zazzera crespa e due mani grosse come badili ne fanno una
macchina da guerra perfetta.
L’ultimo
della banda di Tonino, ma non per importanza, si chiama Fabietto. Compagno di
classe di Tonino, piccolo, magro come un chiodo, però possiede una mira
infallibile con la fionda. Una volta era riuscito a spaccare il vetro della
scuola media a quasi trenta metri di distanza. Ma non un vetro qualsiasi. Aveva
dichiarato quello in alto a sinistra. Il cesso delle femmine. Aveva preso la
mira e non si era nemmeno goduto lo spettacolo perché, prima ancora di sentire
il rumore del vetro frantumato era scappato, seguito da tutti i compari.
Fabietto è il nipote di un compare di Nino. Uno con il quale avevano diviso la
stanza del Grande Hotel Filangieri, come dice sempre papà suo. Insomma, uno
tosto e del quale ci si può fidare.
Lì
accanto Rafe' zampetta nervoso, annanz’ e arretr’, sperando che qualcuno del
cortile non becchi i bambini che stanno per fare la loro prima vera esperienza
da grandi. Ironia della sorte, fuori dalle mura amiche del blocco di Corvetto.
All’improvviso
Tonino sente tuppuliare sul grande portone di legno di via dei Cinquecento.
Gli
pare di contare tre colpi forti e due lunghi, il codice concordato con i suoi
complici, e si getta fuori dal cortile seguito da Rafe', come se fosse nato una
seconda volta. Partorito non da mammà, ma dal suo quartiere. Plasmato come
generazioni e generazioni di ragazzini di questa piccola periferia dal cuore
grande e dai guai enormi.
Tonino
esce in strada e tutti e tre i suoi compagni sono lì che lo aspettano.
Hanno
due monopattini elettrici in quattro, perché sono così grossi che bastano e
avanzano.
Zao
ride quando Tonino gli chiede se sono regolari.
«Regolarissimi»
dice con accento troppo milanese. «Appena ciulati!»
A
quelle parole ridono pure gli altri, anche se Sayed sembra preoccupato.
«Dobbiamo
fare presto. Io domani prima delle cinque devo essere indietro. Mio padre si
alza alle cinque e mezza e se non mi trova a letto mi ammazza di cinghiate.»
«Non
fare la femminuccia, se non ti trova non può darti le cinghiate» dice Fabietto,
pensando al suo di padre che vede una volta ogni sei mesi quando passa da casa
per lasciare qualche spicciolo e litigare con mamma.
«Tonino,
ma sai dove andiamo?»
«Certo,
Zao, che lo so. Cioè, lo sa lui.» E indica Rafe’ che si alza in volo e parte
come un razzo verso l’ANo district, seguito da questa pattuglia di irregolari
dell’esercito di Corvetto.
ANo
District
Sabato
a sera ancora più tarda
Un
appassionato di cinema definirebbe la scena nell’appartamento dell’Assessore
come il tipico stallo alla messicana, anche se con soli due attori che si
muovono sulla pellicola. A ben vedere, mancano molte cose per ricordare il
perfetto set dei vecchi spaghetti western, ma in linea di massima ci sono i
requisiti minimi di vita e tensione sui volti e negli occhi per definire la
situazione piuttosto tesa.
L’Assessore
è esausto, l’AK-47 gli penzola ormai a tracolla come il borsello di un turista giapponese
dopo dieci ore a Venezia, passate a rincorrere l’ombrellino rosso della guida
troppo euforica. Suda copiosamente, ha le mascelle che triturano strati e
strati di smalto e i denti gli scricchiolano in modo sinistro. Il naso, rosso
come il culo di un babbuino, gli cola vistosamente e la manica della camicia
cifrata fatica ad arginare tutto il muco. Gli occhi sono percorsi da autostrade
di capillari sempre più rossi che si intersecano come uno svincolo bloccato a
fine agosto.
Li
stropiccia continuamente con le mani ghiacciate che tremano vistosamente, ma
non perde mai il contatto visivo con Nino, che dal canto suo conserva un’attenzione
vigile.
Zeus
e Apollo, i bambini, sono stati rinchiusi a chiave nello sgabuzzino con una
dose da crepa panza di scatolette e acqua. Che cagassero dove più gli conviene,
ha pensato l’Assessore, basta che non mi vedano in queste condizioni. I bambini
non se lo meritano, potrebbero preoccuparsi più del dovuto. Sono cagnolini
sensibili. I pantaloni del vestito casual sono leggermente sbottonati per
consentire al sottopancia prominente di rilassarsi un poco. Le scarpe
slacciate, indossate ormai con il tallone scalcagnato a mo’ di ciabatte, emanano
un cattivo odore di piede sudato che il filo di Scozia, si sa, non assorbe come
la spugna.
L’Assessore,
per tenersi su, ha pippato quasi tutta la scorta personale e spera che Nino si
decida a lasciarsi andare perché avanti di questo passo non è sicuro di
arrivare sano di mente a domani.
Il
gioco di sguardi, nello stallo alla messicana, funziona solo se la tensione fra
gli attori è bilanciata, e Nino, inconsapevole star in questo film dai tratti
grotteschi, fa la sua parte in modo più che egregio. Il suo ruolo è certamente
quello del brutto, un Eli Wallach in salsa partenopea che sa più di friggitoria
che di stallatico, ma che allo stesso modo conserva uno sguardo intenso, furbo
e inaspettatamente ironico. Nino guarda che sembra un uomo di un altro pianeta,
gli occhi sono due fessure dalle quali spuntano le iridi nere, attentissime a
ciascun movimento dell’avversario. Nino sa che la sua unica via di uscita è il
tempo. Che è galantuomo, ma solo con chi ha la giusta pazienza. E a pazienza,
rispetto a questo gran cornuto dell’Assessore, lui è in vantaggio. È tutta la
vita che aspetta. Prima un lavoro che non è mai arrivato, poi le guardie che se
lo venivano a pigliare e le infinite attese per riacquistare la liberta. Più o
meno vigilata non fa differenza. Per non parlare di tutte le volte che ha
dovuto far passare i fatidici nove mesi per vedere il viso stropicciato dei
suoi figli. A proposito, si deve mantenere vivo anche perché il quarto non può
mancarlo. A sfregio, Nino decide che se tutto si risolverà il ragazzino nuovo
lo chiameranno Ambrogio. Magari parlerà milanese come quest’orso bruno e farà
carriera politica. Nino sorride, e spera che così criminale non gli diventi
mai, il piccolo Ambrogino.
«Cazzo
ti ridi?»
«Ma
che rido e rido, mi sto facendo lo stretching come i calciatori. Sto arrovogliato
a ’stu cazz’ ’e calorifero peggio di un salame in cantina.»
«Senti,
adesso fai silenzio che chiamo l’avvocato.»
L’Assessore
fa il numero di Teresio Dei, con uno dei nuovi cellulari "puliti” e continua
a fissare Nino con aria minacciosa.
Il
terzo attore per completare quello che comunemente in cinematografia si
definisce un "triello” sta per entrare in scena. Ma la pubblicità è
l’anima del commercio e bisogna attendere.
Per
le strade di Milano
Sabato
a tarda sera
Gli
irregolari di Cinquecento Street non hanno mai letto Uno studio in rosso o Il
segno dei quattro di Arthur Conan Doyle e conoscono esclusivamente i loro
omologhi della serie televisiva americana. Solo Zao, il cinese, l’ha vista tutta
su Netflix, che lui cracca qualsiasi cosa e non paga mai un abbonamento. Però
se l’è dovuta ciucciare in lingua originale, con i sottotitoli piratati in
cinese, e ci ha capito poco o un cavolo, ma almeno è un bambino informato sui
fatti. Nonostante le lacune letterarie, i quattro ragazzetti e Rafe' procedono
spediti verso l’ANo District e zigzagano alla grande fra le muraglie, i posti
di blocco, i lavori in corso per le demolizioni a ciclo continuo e le
apparizioni spontanee di mattoncini in mezzo alla strada. Dei muri hanno capito
poco, anche se si sono informati su Internet e alla televisione, ma, dato che
nel blocco tutto sembrava essere uguale a prima, hanno derubricato la cosa come
una questione da adulti e del centro, per di più. Tipica strategia del riccio
di chi abita in periferia. Si appallottola, si chiude e se non vede pensa di
non dover credere. Al riccio di solito dice male e viene schiacciato da uno
pneumatico. Anche a chi sta ai bordi delle città spesso non va molto meglio. Ognuno
ha la sua ruota che gira, dopotutto.
Quello
che Tonino e gli altri hanno notato è che i mattoni spuntano solo sul cemento,
e invece sembrano non fare capolino fra le pietrazze del pavé che fanno saltare
i monopattini come le macchine del rally. Strano. Rafe' vola basso per tenere
sotto controllo la squadra di soccorso per Nino.
La
scena che riesce a vedere il cornacchione, quando si alza in quota per
perlustrare il tragitto da far fare ai suoi compagni, è qualcosa di desolante e
al tempo stesso emozionante. I segnali di fumo, fra le aree dove non sono
ancora stati liberati i varchi, danno al tutto un tocco da cucina infernale. O
da campo rom, che spesso è solo l’anticamera dell’inferno. La città, la grande
Metropoli dagli immensi grattacieli e delle piccole persone, sembra sobbollire
come un brodo di pollo sul fornello di una nonnetta che aspetta l’ora di cena
solo per tirare giù le tapparelle e chiudere tutto il mondo fuori. Rafe’ spera
che il pensiero del pollo a mollo e dell’inferno non porti sfortuna, e prosegue
nella perlustrazione. La cornacchia vede
mattoni e muri orizzontali e a gradini, che compaiono e che collegano idealmente
perfino i tetti di Milano, ma non tutti e non per tutti.
A starci attenti, adesso, gli sembrano seguire uno schema più coerente di
quello che aveva potuto osservare un paio di giorni prima. Pare che si stiano
muovendo a raggera, come a porzionare il tessuto urbano a forma di ruota di
bicicletta o di pizza. Tutto questo potrebbe cambiare per sempre il territorio
cittadino, e basterebbe conoscere il progetto a monte di questi muri per capire
in che fetta di città toccherebbe campare a quelli che non possono volare.
Dalle
parti del varco aperto a Porta Venezia, proprio al limitare del grande parco
con i cancelli sbarrati, che una volta ospitava uno zoo e che a Rafe' era stato
raccontato da uno dei suoi vecchi amici di quando viveva sulla Martesana, i
ragazzini decidono di fare una pausa per rifocillarsi.
Si
imboscano proprio sul cavalcavia dei Bastioni, senza far caso ai loschi figuri,
per lo più neri, che smazzano da quelle parti. Una faccia una razza,
indipendentemente dal colore della pelle e dalla lingua in cui si intrallazza.
Le regole della strada si imparano presto e, soprattutto, non ci sono verifiche
da fare con maestri o professori. Tutta pratica. Chi sbaglia paga e chi fa
giusto è pronto per un altro giro di giostra.
«Raga’,
ho portato quattro pagnottielle che ci facciamo uno spuntino prima della
battaglia.»
«Uh,
Toni, sei un genio. Non c’è il prosciutto vero?»
«No,
Saye’, eccheccazzo. Ci fai una capa così che non puoi mangiare il maiale e vuoi
che ci inzacco il prosciutto? Dài, solo provola e friarielli. Tie’, mangia!»
Anche
Fabietto e Zao divorano la loro pagnottiella e, con una sete fuori dal comune, guardano
l’orologio e fanno cenno che è ora di ripartire.
Rafe'
si rialza in volo e punta dritto verso via Melchiorre Gioia. I monopattini
viaggiano come drakkar vichinghi nel mare urbano e, inspiegabilmente, nessuno
mette in discussione il ruolo della cornacchia nella loro spedizione. Però sono
curiosi.
«Ma
com’è che tuo padre ha una cornacchia al posto di un cane o di un pappagallo
come i pirati?»
«Fabietto,
Rafe' è uno di famiglia. Non sa parlare come i merli indiani e non ripete a
pappagallo le minchiate che gli fanno imparare, ma è un palo con i fiocchi. Ha
la testa fina e, dato che non parla, non può tradirti mai.»
«Nino
è uno dritto. Lo dice sempre pure mio padre.»
«Grazie
Saye’.»
«Dovere.»
Fra
il dire e il fare c’è spazio anche per l’ultima porzione di Milano da servire
sul piatto d’argento a questi quattro eroi minuscoli che hanno scelto la parte
sbagliata della murata, ma lo hanno fatto con spirito ribelle e di giustizia.
Moderni briganti, all’assalto del potere. D’acquisto, che sempre di Milano si
sta parlando.
I
palazzi gemelli dell’ANo District sono in vista e sembrano le due Torri del
film Il Signore degli Anelli. Manco a
dirlo, anche quello piratato da Zao e visto una sera di quest’inverno nei
sotterranei del cortile.
Rafe'
fa un grande giro sopra le teste dei ragazzini, poi si appollaia sul cadavere
di una cabina telefonica che i piccoli diavoli non hanno mai potuto vedere in
funzione e che, a dirla tutta, resta nelle loro giovani menti un mistero al
pari delle femmine e della Coca-Cola senza zucchero.
Tutt’intorno,
i compagni si giurano amicizia eterna e puntano dritti verso la prigione di
Nino.
ANo
District
Nella
notte fra sabato e domenica
«Avvocato,
quanto ci vuole a rispondere al telefono?»
Teresio
Dei, trafelato per l’imbarazzo dello squillo del telefono durante il film al
cinema e pure un po’ incazzato perché si sta perdendo il gran finale, non
riesce a rispondere e balbetta solo qualche sillaba.
«Avvocato,
mi sente? È ubriaco?»
«Sì.
No. Cioè, sì Assessore. La sento. Come va lì?»
«Come
vuole che vada? Questo è più stitico di una capra e io sono esausto. Ho bisogno
che lei mi porti una purga per velocizzare le operazioni.»
Teresio
Dei, avvocato ormai confuso, vede nella purga la soluzione a tutti i suoi mali
e cestina in meno di un amen il suo cervellotico piano per salvare i cavoli
dell’Assessore e la capra stitica.
«Certo,
Assessore, vado subito dal dottor Ambreck che è sempre aperto e vengo da lei. Ha
delle preferenze, per caso?»
«Avvocato, ma che cosa dice? Una purga è una purga. Faccia lei, segua
l’ispirazione, però si muova. Le invio un sms con l’indirizzo. Lo memorizzi e
lo cancelli, ci siamo capiti?»
Nino
continua a fissare l’Assessore e anche il televisore dietro alle sue spalle
sudate, quasi un tutt’uno con la camicia appiccicaticcia. L’avvocato non è un
grande attore e il “triello” sfuma come il moccolo di una candela quando lo
stoppino si esaurisce. Peccato, perché un bel finale pieno di suspence alza
sempre il gradimento del film.
Sul
sottopancia del canale all news i muri la fanno ancora da padrone. Una notizia
in particolare fa rizzare i peli del coppino a Nino. Si riporta che forse la
prima vittima dei muri e dei mattoni che spuntano da terra o piovono dal cielo
potrebbe essere un ispettore del Comune, settore edilizia e concessioni. Tale
Franco Di Pace, ricoverato in coma farmacologico al Niguarda dopo che un
mattone vagante lo avrebbe colpito mentre effettuava un sopralluogo, con blocco
del cantiere, nell’area dell’ex Fiera Campionaria di Milano.
Così
la notizia sarebbe poco altro che una velina, però è l’Assessore a sparare il
proiettile d’argento, come una roulette russa, ma con il revolver del colonnello
Colt.
«Avvocato,
io sono circondato ha capito? Mi volevano bloccare un cantiere in Fiera. Ho
l’ufficio tecnico-edilizio del Comune che mi ha preso di mira e non so fino a
quando riuscirò a tenerli a bada. Per ora ho tamponato, ma più di così non
credo di poter fare. Lei non ha contatti con la massoneria, per caso? Mi devo
attaccare a tutto, oramai. Ho messo i piedi e qualche uomo in due o tre
congreghe, logge, come cazzo si chiamano, ma mi sembrano solo dei ciula con il
doppio mento e l’alito pesante, che provano a scimmiottare quelli della P2.
Capito? Cioè, gente che gioca a Monopoly e, alla fine, crede di essere ricca
per davvero. Insomma, io devo recuperare ’sta chiavetta. Così faccio pulizia e
a quelli dell’ufficio tecnico del Sindaco gliela metto in quel posto. Quel bolscevico
vuole far fare gli affari solo ai suoi. Ma la Regione è la Regione e se c’è da
mangiare vuole sedersi a tavola anche lei. Con tutti gli onori del caso,
oltretutto.»
Nino
adesso ha paura. Quella vera, che fa sudare la fronte, che blocca il cuore e
stringe lo stomaco. Quella che ti mette di fronte a tutte le tue debolezze.
Poi,
d’un tratto, un fragore di vetri che vanno in frantumi fa sobbalzare sia Nino
che l’Assessore e tutto diventa più frenetico di un congresso di venditori di
case.
ANo
District,
Le
ali della libertà
«Avvocato,
metto giù che mi si è rotto un vetro. Avevo appena tirato su le tapparelle per
cambiare aria.»
«Stai
fermo lì, te» dice poi a Nino.
Lui
non muove un muscolo. Annusa l’aria umida della notte, e sente l’inconfondibile
rumore delle ali di Rafe'.
«Bravo,
Fabietto, sei un fenomeno» dice Tonino mentre vede il tiro di fionda del suo
amico e sente il rumore del vetro, indicato da Rafe’, che finisce in mille
pezzi.
«Zao,
ci sei?»
«E
come no. Tre, due, uno e siamo dentro. Citofono craccato in quattro secondi
netti.»
«A
che piano andiamo?»
«Sayed, al quarto. Rafe’ si è fermato là.»
«In
ascensore?»
«È
bloccato.»
«No,
ci vuole il codice, ma non c’è problema.»
Zao
smanetta sul suo tablet onnipotente e in tre, due, uno l’ascensore si apre.
Salgono
al piano e suonano al campanello.
L’idea
in sé è semplice.
Chi
apre la porta viene abbattuto da una delle potentissime pizze di Sayed, poi
tutti dentro e si salvi chi può.
Molto
naïf, soprattutto perché i ragazzini non sanno quante persone ci sono
nell’appartamento con Nino.
Tonino
suona e il cuore dei suoi due amici si ferma per non fare troppo rumore e tradirli.
«Chi
cazzo è che suona?» urla l’Assessore. «Sarà mica quel coglione del custode. Che
efficienza, però. Si rompe un vetro e quello lì, in piena notte, sale subito a
vedere cos’è successo.»
Fa
per andare ad aprire, poi si ricorda dell’AK-47. Sorride perché gli viene in
mente che tanti anni fa, quando lui giocava a basket e la politica gli faceva
ribrezzo, gli avevano raccontato di un tale Andrej Kirilenko che usava la maglia 47 e siccome era russo o
roba del genere lo chiamavano come il fucile. Solo che adesso il basket è
un ricordo sbiadito e il fucile non lo può mostrare al custode. Così, molla
l’arma dietro all’ingresso e batte un pugno sulla porta dello sgabuzzino per
calmare Zeus e Apollo, che abbaiano come degli ossessi.
«Buoni,
buoni. Basta. Arrivo subito.»
La
porta si apre e, non appena sull’uscio appare la faccia stravolta e troppo
rubizza dell’Assessore, Sayed spara un ceffone che rimbomba per tutto il piano.
L’omone accusa il colpo. Sembra riprendersi subito, ma poi crolla come un sacco
vuoto. La sberla di Sayed, roba da campionato mondiale, gli ha fatto sbattere
la testa contro il montante della porta blindata e il cervello ha staccato la
spina.
«Centro,
Sayed! Forza, tiriamolo dentro. Papà, papà, sei lì?»
L’Assessore pesa quasi novanta chili e in tre ci mettono un po’ a portarlo in
anticamera. Zao gli leva la cintura e la usa per ammanettarlo, mentre Sayed fa
lo stesso con le stringhe delle scarpe. Solo che gliele lega insieme.
«Tonino,
so’ qua. Fai presto.»
I
ragazzini entrano nello studio e hanno un attimo di spavento nel vedere Nino
così provato.
«Uaglio’,
non vi prendete paura. Recuperate il fucile che sta di là e cercategli nelle
tasche le chiavi delle manette. Facite ampress’ che se si sceta so’ cazzi.»
Sayed
va in corridoio e torna con l’AK-47 trascinato per la cinghia.
Zao
trova le chiavi, mentre l’Assessore inizia a riprendersi.
«Brutti
ladri di merda!»
Nino
porge il polso a Tonino e si fa liberare, poi dà un bacio in fronte a figlio e
dirige i ragazzini verso l’uscita.
Passando
davanti all’assessore, non si trattiene e dalla tasca dei calzoni tira fuori la
chiavetta.
«Secondo
te mi mangio una chiavetta? Mentre eri girato a guardare i tuoi fogli che
volavano fuori dal balcone, l’ho infilata in tasca e poi ho deglutito e ti ho
raccontato la storiella. Vafammoc a
chiteviv, strunz.»
L’Assessore
non fa in tempo a smadonnare che la porta del suo appartamento si chiude.
Nino
gli ha fregato le chiavi. Chiude a sei mandate e le lascia appese alla toppa.
Bisogna
vincere, non strafare.
Una
volta in cortile, proprio davanti al cespuglio che si vede dalle finestre dell’Assessore,
Nino stringe le mani a tutti e dà un buffetto a Fabietto che li ha raggiunti.
«Che
mira fina, Fabie’, mò però fatevi chiù in là che non ce la faccio più» dice Nino,
mimando il segno del WC con le dita della mano destra.
Tutti
ridono e Rafe' spara un gracchio.
Nino
si cala dietro il cespuglio e si libera. Alza lo sguardo e, sul balcone, scorge
la sagoma dell’Assessore che si trascina in cerca di aiuto.
I
loro occhi si incrociano e quelli dell’Assessore sono infuocati dalla rabbia.
La
bici elettrica di Nino e i monopattini volano come Rafe' verso via dei
Cinquecento, quando Nino, in piazzale Maciachini, ferma tutti e chiede a Zao di
dare un’occhiata alla chiavetta dell’Assessore.
Il
cinesino sorride, attiva il suo tablet onnipotente e infila la pendrive.
Lo
schermo si illumina, poi sembra fondersi con la città intera.
Centinaia
e centinaia di linee rosse colorano la mappa di Milano.
«Cazzo!»
dicono tutti insieme, e Rafe' fa loro eco con un potente «Cra!».
CONTINUA...
Aspettiamo i vostri suggerimenti per il prosieguo del romanzo!