giovedì 17 novembre 2016

"Il campione" – 1. L'incipit

IL CAMPIONE – 1. L'INCIPIT
di Gino Cervi


«Basta. Se quest'anno non vinco, dico basta. Basta con la bici. Basta con tutta ’sta fatica de l’ostia. O vinco e divento un campione. O niente.
Ci ho mica voglia io di far fatica, una fatica bestia a correre in bici senza vincere. Io voglio vincere. Voglio diventare un campione. M’interessa mica a me correre e non vincere. Far fatica solo per la fatica.
O campione, anzi campionissimo, o niente. Che se dovevo far fatica e basta, per due lire, allora restavo a fare il contadino come mio padre, o l’operaio a Tortona, alle officine Alfa. Che la bici me la prestava il papà. Ma solo per andare in fabbrica, eh! Che questo qui è uno sport da bestie. Sole, pioggia, polvere, fango, buche, sassi. E poi vento, nebbia, grandine, sudore. E gomme che si bucano, e catene che si spezzano, e telai che si rompono. Salite che sembrano coltelli nella schiena. E discese che ti fan stringere il culo per la paura.
Eh no! Mica son scemo io... a far questa vita senza diventare campione. Ma campione mica mi basta, voglio diventare campionissimo. E famoso. E ricco. E se non vinco oggi, basta. Al diòvu la bicicletta!»


È il 14 aprile 1918. Domenica mattina. Ma che mattina, alba. È ancora tutto buio a Milano, anzi alla Conca Fallata. Sono in pochi alla partenza. La partenza della Milansanremo. La corsa di primavera. Sì, ma qui è ancora inverno. La nebbia vien su a fumate dal Naviglio. Pochi e intirizziti i corridori, solo trentatré. Si sfregano le mani. Battono i piedi. Qualcuno piscia nel Naviglio.
Sono solo trentatré i ciclisti iscritti alla Milansanremo, undicesima edizione. La corsa più lunga, trecento chilometri che non finiscono mai. Dieci, dodici ore in sella. Pedalare, pedalare, pedalare. Un biliardo da Milano a Novi Ligure. Poi gli Appennini. Le salite. Il passo del Turchino. Se piove il fango diventa colla e si attacca ai cerchioni e quasi quasi vai più forte se scendi a spingere. Poi, dopo la galleria del Turchino, un altro mondo. La Riviera. Che, se sei fortunato, ti scaldi le ossa, ti togli di dosso l’umidità della pianura. E devi stringere gli occhi che la luce del mare là in fondo sbarluccica da farti sbandare. Riviera. Voltri, Arenzano, Varazze, Celle, Albisola. E poi Savona. Su e giù per i capi: Mele, Cervo, Berta. Diano, Oneglia, Porto Maurizio, Arma. E infine Sanremo. Le palme, le fontane, le ville, le cupole a cipolla del Cristo Salvatore.
Se sei fortunato, però. Capita spesso che la primavera sia in ritardo anche lì, in Riviera. E allora è acqua e vento e tempesta che viene dal mare, e i ciclisti naufragano tra un controllo, un caruggio e un’osteria.
Tempo da lupi. Altro che primavera. E non a caso la Milansanremo la vincono quasi sempre i francesi, o i belgi. Gente abituata a correre a mollo, coi geloni ai piedi. Petit-Breton la prima volta, nel 1909. Poi ancora i francesi: Christophe, nel 1910, quando la tregenda si abbatté sui 63 partenti: ne arrivarono solo in 7, e mezzi congelati. E poi Garrigou nel ’11 e Pellissier nel ’12, diavolo di un Pellissier. E poi anche due belgi: Van Hauwert, nel 1908, e Defraye, nel 1913. Il primo degli italiani fu Luisìn Ganna, nel 1909, quello che poche settimane dopo vinse il primo Giro d'Italia. Lo stesso che disse, arrivato a Milano, all'ultima tappa, rispondendo al cronista che gli chiedeva, ampolloso, le “più vive impressioni del suo trionfo”: “Cosa vuol che le dica? Me brüsa tantu el cü!”. 


Anche a Girardengo Costante, figlio di Carlo e Gaetana Fasciolo, nato a Novi Ligure l'8 marzo 1893, poco più di venticinque anni quella domenica mattina del 14 aprile 1918, bruciava un po’ il culo. Per l’impazienza di partire. Perché quella corsa lì, la Milansanremo, sentiva che era la “sua corsa”. E anche perché aveva deciso che quella sarebbe stata l’ultima occasione che si dava per vincerla e diventare davvero un campione della bicicletta.
A dire il vero, Costante doveva già dire grazie alla bicicletta. Se adesso era lì, alla Conca Fallata, nel freddo e nella nebbia, e con 300 chilometri da pedalare e sudare e sacramentare; lì e non nelle trincee a difendere la Patria, come centinaia di migliaia di altri italiani, più o meno della sua età, a farsi massacrare dai tognini che dopo Caporetto erano arrivati fin sul Piave e se la guerra continuava così tra poco sarebbero arrivati dappertutto, come ai tempi di Radetzky, e allora sì, altro che corse in bicicletta, altro che Milansanremo, era proprio grazie alla bici! 


Costante Girardengo invece la guerra l’aveva scampata. Nel 1915, quando l’avevano richiamato, era già un ciclista quasi famoso. Aveva già fatto due Giri d’Italia e aveva vinto due tappe. E poi alcune corse importanti, come la Milano-Torino. Ma soprattutto era stato per due volte campione italiano, nel 1913 e nel 1914. Anzi, per vincere i Campionati italiani del 1913, quando era di leva, bersagliere a Verona, era addirittura scappato di caserma. Non gli avevano concesso la licenza per disputare la corsa, ma Girardengo ci andò lo stesso. Al ritorno, anche perché aveva vinto, l’aveva passata liscia: 15 giorni di rigore e 20 di semplice consegna. Ma Costante, che già usava l’astuzia non soltanto in gara, si dichiarò ammalato. Ricoverato in ospedale militare, venne poco dopo riformato per una congiuntivite. Un po’ sospetta, a dire il vero. La verità era che il ciclismo in quegli anni cominciava a diventare una vera passione. Il Gira, ormai lo chiamavano così – che Girardengo era troppo lungo, e faceva anche un po’ ridere – , aveva poi avuto la fortuna di trovare dei medici grandi appassionati delle corse in bici. Tifoso e consenziente lo fu anche quello che, nel 1915, quando scoppiò la guerra e iniziarono a richiamare alle armi, gli scrisse un certificato che lo esonerò dal servizio e gli salvò la pelle. Costante finì a lavorare come operaio calibrista all’Ansaldo di Sestri.
Ma a lui bruciava non solo quella cosa lì, sopra la sella, ma anche per come erano andate le sue due precedenti Milansanremo. Nel 1915 l’avrebbe anche vinta. Se non ché lo squalificarono per aver preso una scorciatoia a Porto Maurizio. Nel 1917 si era presentato allenatissimo, pronto a spaccare il mondo, ma alla fine arrivò secondo, dietro al suo amico-rivale Tano Belloni, compagno di squadra alla Bianchi. Non aveva saputo dosare le forze ed era andato, come si diceva allora, in surménage. E allora il 1918 doveva essere l'anno buono. Quello della sua consacrazione: o Sanremo o morte.


«Ecco. Se parto adesso, li prendo tutti di sorpresa. Nessuno se lo aspetta.»

Il Gira, poco dopo Tortona, si mise in testa al gruppo e cominciò a tirare come un matto. Non c’erano salite e per staccare gli altri non restava altro che mettersi davanti a tutti e spingere a tutta. Spingi e spingi, alla ruota restarono in pochi. A Rivalta si voltò e dietro non vide più nessuno. Belloni, Corlaita, Sivocci, Vertemati, quelli che avevano provato a stargli a ruota avevano mollato. A Pozzolo Formigaro i cronometristi registravano 30 secondi di vantaggio. E all’ingresso in Novi erano quasi un minuto.

«Nueve. Ecu. La mè Nueve. Quanta gent! Madòna! Tuti per mì!»

Girardengo piombò per le strade di Novi, la sua Novi. Un mucchio di gente. Gente che lo aspettava, come lo aveva aspettato la prima volta, nel ’13, e poi nel ’14, nel ’15 e nel ’17. Forse c’è anche suo padre. Povero vecchio, ci aveva provato a fargli capire di lasciar perdere col ciclismo, con le buone e con le cattive: una volta gli aveva anche scaraventato giù la bici dalla finestra. E sua mamma, Gaetana, che quando rimase incinta per la quinta volta, aveva fatto un voto alla Madonna della Guardia: “Fammi nascere almeno un maschio, così che ci abbiamo due braccia in più per lavorare i campi!”. Due braccia per zappare no, ma due gambe per pedalare sì. E che gambe!
La corsa attraversava Novi. La gente lo aspettava. Eccolo, eccolo. È lui, il Costante! Lo applaudivano, lo incitavano: «Brovu! Brovu Custant!”.
Un attimo, solo un attimo. Che a spingere sui pedali non hai mica tempo di guardarti attorno. Però all'ultima curva gli parve di riconoscere qualcuno.


«Ma sì, era lui, il Sante, ’l Santéin. Che facia balossa!».

Ma non c’era tempo per pensare. Via, pedalare, che stanno per arrivare le salite. E poi il mare. Poi, magari, la vittoria.
 
E LA STORIA CONTINUA... ANCHE GRAZIE AI VOSTRI SUGGERIMENTI!

StraStorie per BookCity Milano
Un progetto di Valeria Ravera
Con Gino Cervi e Matteo Speroni
Illustrazione di Riccardo Guasco
Sul web e al Laboratorio Formentini
 
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 #BCM16 #StraStorie


"Girardengo", illustrazione di Riccardo Guasco

1 commento:

  1. quando sei in bicicletta, hai uno sguardo privilegiato su quello che sta intorno.
    perché non sei a piedi dove la stessa immagine diventa così ripetitiva da perdere qualsiasi interesse, come vedere lo stesso fotogramma di un film al cinematografo per decine di secondi, quando non sono minuti. Non sei nemmeno in motocicletta, dove la velocità deforma tutto, e tutto diventa mosso sfocato.
    in bicicletta è diverso, cambia tutto molto in fretta, ma non abbastanza per renderlo sfocato. Costante ama questo modo di guardare il mondo, e adesso che cominciamo le prime salite sa che tutto cambierà ancora

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