mercoledì 9 maggio 2018

StraStorie ExtraLarge – quarta puntata

STRASTORIE EXTRALARGE 

UN ROMANZO SCRITTO ATTRAVERSO L’INTERAZIONE CON I LETTORI DA RICCARDO BESOLA,  ANDREA B. FERRARI E FRANCESCO GALLONE

 

Guendalina Ravazzoni, Rattorazzia


Capitolo 10
In cui si gioca a fare la guerra

Il gatto saliva sinuoso, rasente ai muri, per le scale diroccate della grande torre di cemento affacciata su via Melchiorre Gioia.
La sua coda, se ne avesse avuta una, sarebbe stata dritta, all’erta, pronta a scattare. Il moncherino carbonizzato, ricucito alla meglio alle sue terga, invece era immobile. Non lo sentiva più da quella volta in cui l’inferno era venuto a morsicarglielo, e tutta la sua vita randagia aveva preso una direzione precisa. 
Il suo pelo rosso, per il quale gli era stato dato il nome di Flambé, quasi un presagio delle fiamme che lo avevano menomato, lasciava tracce del suo odore sulle pareti non ancora completamente bonificate dall’amianto. Il gatto, incurante del pericolo e dei rumori sinistri della struttura che si sgranchiva come se avesse vita propria, saliva imperterrito verso il lezzo di nutria che doveva seguire. Qualcosa lo infastidiva, però. Così si fermò, nascosto dietro a una porta, e tese l’orecchio. L’inconfondibile ticchettio di unghie animali, tipico degli stabili abbandonati, lo inquietò. Si nascose nella fessura della porta rimasta aperta e li vide passare.
Il suo compito, forse, sarebbe finito di lì a poco.

Erano circa una trentina e correvano per le scale della torre Galfa guidati dai loro capi carismatici, le zampe posteriori che scivolavano per la foga. L’onta andava lavata subito e con il sangue, non c’erano dubbi. Quelle grosse nutrie avevano sconfinato. Avevano terrorizzato i loro cugini. E, come se non bastassero queste gravissime violazioni degli accordi di pace, avevano portato con loro anche una cornacchia, vero spauracchio per i ratti milanesi.
I due condottieri che sbavavano alla testa del drappello avevano ben presente cosa potessero fare a un roditore come loro con quel becco nero e con i loro artigli mortiferi. Entrambi avevano visto soccombere più di un amico sotto la morsa delle cornacchie e, ora che gliene si presentava l’occasione, volevano vendetta. Erano armati fino alle code e quelle nutrie avrebbero trovato pane per i loro incisivi.
Ci avrebbero lasciato le pellicce in quella stanza al penultimo piano.

Raf, appollaiata sul binario dove un tempo scorrevano le grandi finestre della torre Galfa, osservava ora Scolo, ora la città. Non poteva dire di amarli entrambi allo stesso modo, ma i sentimenti che la legavano alla grossa nutria e alla grande città erano, in un certo modo, complementari. Raf sapeva che senza quello strano compagno tutto pelo e dentoni, così dedito al raccatto di fondi di birra lungo la Martesana, niente al suolo sarebbe stato importante per lei, al di fuori del cibo che le discariche improvvisate degli umani le offrivano. La cornacchia si diceva anche che non avrebbe mai potuto abbandonare le altezze di Milano, quella strana colata di cemento, vetro e traffico, che le si apriva a perdita d’occhio ogni qual volta si alzava in volo. Era, la città degli uomini, un luogo così affascinante che Raf poteva stare ore a stancarsi le ali e tutti i muscoli per ammirarla e per sentirne le correnti d’aria ora calde, ora gelide che la sollevavano o la spingevano verso la periferia. Niente al mondo le avrebbe fatto abbandonare la città, nonostante i numerosi pericoli che si celavano a terra lontano dalla Martesana o dai parchi che, con sempre maggior fatica, sopravvivevano all’idiozia degli umani. Dalla finestra Raf osservava il grattacielo (nome presuntuoso che gli umani danno alle loro costruzioni, altrettanto presuntuose, che al cielo fanno a malapena il solletico) con la grande punta che continuava a lampeggiare di rosso per evitare che gli uccelli d’acciaio (illusione tutta umana di essere liberi nell’aria) vi si schiantassero contro. Loro, gli uccelli di piume e ossa, avevano dovuto imparare a proprie spese come evitare i gorghi che si creavano in quella piazza e come non sbattere contro le vetrate onnipresenti. Il mattino, che era stato scuro e piovoso, stava velocemente cedendo il passo al pomeriggio e Raf sentiva che alla loro ricerca fra le cose del Malandato mancava ancora qualcosa. Il rumore del traffico raggiungeva la cornacchia e le nutrie, infastidendole e confondendo il loro udito.
Scolo, complice il fatto che Jake si era infilato a esplorare i cassetti della scrivania del Malandato, aveva approfittato della pausa per far cascare dal ripiano della scrivania il cartone del vino e darsi al suo vizio preferito. Il vino non era la sua bevanda prediletta perché niente era come una Ruttaforte gelata, ma stanti l’ora, il freddo, e anche la mancanza di pietanze poteva accontentarsi. La nutria, in realtà, era preoccupata e cercava di non darlo a vedere spiando Raf di soppiatto. Scolo era geloso e indispettito. Tutto il vino di quel fondo di cartone non gli avrebbe comunque fatto andare giù il modo in cui Don Picciotto aveva guardato Raf. Quel piccione si stava tacchinando la sua cornacchia e, nonostante fosse un piccione d’onore, lui non poteva lasciargliela passare.
“Venite” disse Jake che spuntava a mezzobusto da un cassetto “ho trovato qualcosa qui sul fondo.”

Flambé decise che la truppa dei ratti era troppo anche per un gatto famelico come lui e prese dunque la rampa di scale che correva sul lato della torre Galfa affacciato su via Galvani e, più in là, verso la Stazione Centrale. Questa mossa gli avrebbe concesso di anticipare i ratti e di mettersi comodo a osservare lo spettacolo nella stanza dove si erano rifugiate le nutrie. Chissà se quelle maledette dentone se la sarebbero cavata anche stavolta. Era da un po’ che le seguiva e doveva riconoscere che ci sapevano fare, anche se era certo che né le nutrie né lo strano umano lo avessero mai notato. Le aveva intercettate già in piazza Duomo, quando maldestramente erano state braccate dagli umani in divisa, poi le aveva tallonate al parco Sempione. Si era mimetizzato fra i gatti del Castello, era sgattaiolato alle loro chiappette pellicciose fra i cunicoli e le aveva momentaneamente perse di vista quando si erano imbattute nelle squadriglie guanose di Don Picciotto, il boss di piazza Duomo. Ora, con tutti quei ratti alle loro code, chissà cosa si sarebbero inventate. Era proprio curioso di scoprire se le nutrie potevano volare.

Quando mancava poco più di un piano per raggiungere la stanza dove le nutrie e la cornacchia si erano accampate, proprio la stessa dove aveva stazionato qualche giorno quello strano umano con il raffreddore e l’occhio ballerino che farfugliava tutto il tempo fra sé e sé, il plotone d’assalto dei ratti si fermò. I due capi si issarono sopra all’ultimo gradino della rampa e, dall’ammezzato, iniziarono a impartire gli ordini ai loro soldati.
Erano in due, ma si vedeva chiaramente che il capo era quello con degli strani lembi di stoffa rossa attorcigliati intorno alla vita e alle zampe posteriori. L’altro, un ratto gigantesco, aveva la pelliccia tutta rovinata e quasi rasata a zero a causa di un’infinita sequenza di cicatrici che ne solcavano il corpo. Lui era il braccio armato del capo e tutti lo conoscevano come Rattoppato, il guerriero che non conosce la paura. I soldati lo idolatravano e su di lui girava la leggenda che una notte, in una fogna scura dalle parti di piazza della Repubblica, avesse sconfitto un pitbull da oltre trenta chili che apparteneva a un giovane uomo con i capelli colorati di viola e un sacco di pezzi di ferro attaccati al muso. Rattoppato squittì un verso animalesco, quasi umano, e placò la sete di sangue dei suoi compagni, consentendo al loro generale di parlare.
“Soldati” disse con voce intonata all’uopo “quanto è vero che mi chiamo Rattolomeo di Bari…” il ratto fece una pausa piuttosto lunga come aveva sentito fare a suo nonno Nicola, che era emigrato al nord in cerca di fortuna, infrattato in un camion di meloni gialli “… oggi faremo la pelliccia a quelle nutrie e soprattutto alla orribile cornacchia. Noi siamo i padroni di questa torre da prima che andasse in rovina, secondo quando ci raccontano le nostre cronache. Eravamo qui quando ai soffitti c’erano le luci e non colava tutta quest’acqua rugginosa e acida che ci corrode le budella. E, ora che gli uomini hanno ripreso a lavorarci, per riportarla ai fasti di un tempo, non possiamo farci sconfiggere da due nutrie e una cornacchia. Armiamoci! Riscattiamo l’onore dei nostri cugini topolini e riaffermiamo la nostra supremazia sulla torre Galfa. L’armistizio stipulato al parco Sempione dai nostri parenti è dichiarato nullo, almeno per il nostro territorio. Avanti miei (p)roditori!” Lo squittio unanime risuonò per i corridoi del piano come un lugubre presagio di nefandezze, poi i ratti iniziarono la vestizione per la battaglia.

“Vecchia lenza di un Jake, sempre detto che dovevi fare il segugio e non la nutria da compagnia” disse Scolo prima che uno strano rumore proveniente dai piani inferiori gli facesse rizzare tutto il pelo dalla coda alla collottola.
“Cos’è stato?”
“Non so Scolo, sarà il vento o il chiasso della strada qui sotto che giocano a nascondino fra le scale di questo cantiere maledetto” disse Jake snutriando fuori dal cassetto e proseguì, eccitato per la scoperta: “Guardate questo.”
Jake trascinò con sé un altro disco come quelli sparsi sul pavimento che, inspiegabilmente, il Malandato o chi per lui aveva infrattato nella scrivania, invece di abbandonarlo per terra.
Raf, alle loro spalle, girava la testa a destra e sinistra in modo da permettere ai propri occhi di abituarsi a quella strana visione, ma senza troppo successo.
“Aprilo” intimò Scolo a Jake dandogli una zampata sulla collottola.
“Al tempo, Scolo, guardiamo prima la foto sulla copertina.”
“Perché?” gracchiò Raf, che a curiosità era seconda solo a sua cugina, la gazza ladra.
“Perché Luca fa sempre così. Quando siamo sul divano lui guarda le copertine, si chiamano così, e solo dopo un po’ che le ha studiate inizia a raccontarmi la storia.”
In quel momento Jake si rese conto di quanto gli mancasse il suo amico e un moto di gelosia verso Anna, la figlia del Malandato, gli avvampò il muso e tutte le vibrisse. Proprio come avrebbe fatto Luca, Jake si accovacciò davanti alla copertina e, seguito a ruota da Scolo e Raf, iniziò a osservarla in religioso silenzio.

Al piano in cui l’odore delle nutrie era così forte da dargli il voltastomaco, Flambé decise che se i ratti avessero fatto la pelliccia a quei due roditori dentoni lui avrebbe sfruttato la cosa per il suo personalissimo scopo che differiva, in vero, da quello molto più nobile di colui che si reputava il suo padrone.
Alla sua collezione di code ne mancava una di nutria.

I ratti avevano tutti degli strani segni sui musi, imbrattati di fango rappreso e fresco che disegnavano dei contorni minacciosi attorno agli occhi e sopra le orecchie. Avevano avvolto le zampe anteriori e le teste con drappi di stoffa a macchie verdi e nere rotolata giù da un camion tempo prima e, almeno la metà di loro avevano infilato le code rosacee dentro delle minuscole bottiglie di birra, anch’esse verdi, scolate dagli ultimi operai che avevano frequentato la torre Galfa alla fine dell’estate. Le tenevano in bilico mentre salivano le scale per evitare di fare rumore e, giungendo al piano dove si trovavano Jake e Scolo, si prepararono all’attacco.

I ratti stavano facendo delle manovre che Flambé non comprendeva, ma d’altronde quei roditori infami erano fra le bestie più mimetiche che la Natura si fosse fatta sfuggire di mano. Nonostante le loro testoline fossero così piccole e i loro occhietti così inespressivi, imparavano alla svelta come sopravvivere in qualsiasi luogo e riuscivano con quelle code schifose a fare cose che nemmeno le scimmie erano in grado di immaginare. D’altronde, pensava Flambé sgattaiolando di fronte alla porta della stanza delle nutrie, quella storia del pollice opponibile come mezzo universale in grado di far dominare una specie sopra tutte le altre era una credenza sopravvalutata raccontata solo dalle scimmie e dagli umani.

Il vento, dentro la stanza che era stata il rifugio temporaneo del Malandato, stava iniziando a mischiare tutte le carte sul pavimento e sulla scrivania. Il neon mezzo staccato che traballava cieco dal soffitto sembrava un pendolo idrofobo che aveva smarrito il senno ed era in balia di una personalissima danza sgraziata.
Raf provò a chiudere la vetrata a colpi di becco, ma era bloccata irrimediabilmente, così tornò a osservare la copertina di quell’oggetto.
Dovetti spremermi tutte le meningi e anche le riserve di grasso sul di dietro che avevo puntigliosamente accumulato in vista dell’inverno per provare a schiarirmi le idee, ma non ci riuscii. Non era importante fare come Luca per poter raccontare le storie delle copertine, bisognava essere come Luca, così decisi di condividere i miei dubbi con i miei amici:
“Compagni, dobbiamo trovare una spiegazione a questo disegno.”
Cra, cra, ma forse la spiegazione è dentro.”
“Sì, Jake, come con le bottiglie di Ruttaforte. Fuori cambia il colore, ma è dentro che c’è il segreto di tutto.”
“Certo, certo, ma il fuori è importante per gli umani, ne sono certo. Dunque, secondo voi perché il Malandato aveva infrattato proprio questa copertina qui, tutta nera, con sopra il raggio bianco che passa dentro un coso di vetro e dall’altro lato vengono fuori tutti i colori dell’arcobaleno? È uguale a quello che spunta in fondo alla Martesana dopo le piogge estive.”
Cra, guardiamo dentro!”
“Fatto, Raf!”
“Aspetta, Scolo…”
Il disco era tutto nero, con un buco nel centro come tutti gli altri. Qua e là c’erano dei buchini che ricordavano quelli sgranocchiati dai topolini, ma qualcosa non tornava.

I ratti erano ormai schierati a pochi metri dalla stanza delle nutrie. Quelli con le piccole bottiglie verdi infilate nelle code davanti, e gli altri tutti dietro.
Flambé fece appena in tempo a sgattaiolare fuori dalla portata del manipolo dei roditori armati, ma per non rischiare di perdere anche il suo mozzicone di coda fu costretto a passare fulmineo davanti alla porta della stanza.

Cra, cra. I buchini sono diversi.”
“Come fai a dirlo?”
“A volte le cornacchie hanno l’occhio di falco, Jake.”
“Quindi, Scolo, secondo te ha ragione lei?”
Jake prese il disco fra le zampe, poi ne acchiappò un altro, mezzo infilato in una copertina con un umano folgorato dalla corrente elettrica, e constatò che i morsi dei topolini erano diversi. Poco precisi e con i bordi frastagliati… I buchini sul disco conservato dal Malandato erano molto più regolari. Raf aveva ragione.
“Jake?”
“Dimmi, Scolo.”
“Mi è sembrato di vedere un gatto.”
Cra, cra. Ratto? Hai detto ratto?”

I trenta ratti comparvero immediatamente alle spalle di Rattolomeo e Rattoppato, quelli con le bottiglie sulle code davanti e quelli senza dietro. I ratti senza bottiglie facevano tintinnare ritmicamente con i loro dentini quelle sulle code dei loro sodali. TIC, TITIC, TITIC, TITIC, TITIC, TITIC, TITIC, TITIC, TITIC, TITIC, TITIC, TITIC, TITIC, TITIC, TITIC.
“Nutrieee…” rattò Rattolomeo, spalleggiato da Rattoppato “giochiamo a fare la guerraaa…? Nutrieee… giochiamo a fare la guerraaa…? TIC, TITIC, TITIC, TITIC. “Nutrieee… giochiamo a fare la guerraaa…? Adesso vi spacchiamo la pellicciaaa…”

Jake e Scolo, due nutrie dritte e che sapevano farsi rispettare, capirono subito che sarebbero finiti a raccontare la propria storia alla Grande Nutria, e reagirono in maniera diversa.
Raf ebbe appena il tempo di alzarsi in volo e coprire con le sue ali nere i corpi dei suoi amici.
Jake, che era il più intelligente e riflessivo, provò a spingere con un colpo di coda il disco segreto del Malandato sotto alla scrivania, nell’ultimo tentativo di preservare quel mistero per Luca e Anna, che forse avrebbero provato a rintracciare il vecchio pirata.
Scolo invece partì a razzo contro Rattolomeo, squittendo qualcosa di incomprensibile in modo così roco da sembrare un gracchio di Raf.
Le quindici code lanciarono le quindici bottigliette verdi con una violenza tale da farle sembrare dei proiettili.
Raf con le ali protesse Jake, ma non Scolo che aveva anticipato il movimento dei ratti e ormai era a pochi centimetri dal collo di Rattolomeo, gli incisivi gialli luccicanti odio. Stava già assaporando il gusto del sangue e della pelliccia di ratto, quando qualcosa di poderoso mise fine alla sua furia.
Rattoppato lo intercettò con le sue potenti zampe posteriori e, nonostante Scolo fosse più grosso, grazie a una tecnica imparata spiando gli umani in una palestra vicino a Piazzale Loreto, lo afferrò con le zampe anteriori, lo capovolse sfruttando la sua stessa forza e gli assestò un morso alla coscia destra, arrivando quasi a sentire i tendini. Poi lo scagliò di nuovo verso l’altra nutria e la cornacchia.
Jake, a quel punto, poco prima che tutti e trenta i ratti gli piombassero addosso, decise di utilizzare le sue zampine posteriori per tirare quanti più dischi possibili verso di loro. Individuò un mucchio consistente e iniziò a spararli come lame rotanti.
I primi tre fecero cilecca, gli altri tagliarono il fiato ad altrettanti ratti, ma era una lotta impari.
Raf si alzò in volo e si buttò verso la finestra aperta.
Scolo, dolorante e sanguinante, la guardò fuggire e si sentì abbandonato per sempre.
Raf rientrò come un proiettile e conficcò il becco nero nell’occhio di Rattolomeo.
Rattoppato, preso alla sprovvista dalla velocità della cornacchia, si avventò sull’uccellaccio con un morso a caso e rimase con tre piume nere fra gli incisivi.
Rattolomeo gridava e girava su se stesso come un ossesso, ma i ratti del plotone continuavano a gettarsi contro Jake graffiandolo e morsicandolo. Scolo era ferito più gravemente, quindi lo avrebbero finito dopo.
Il frullo d’ali che entrò con la forza dirompente di una tempesta ricordò a Jake quello di un’altra memorabile battaglia della sua vita. La Grande Nutria doveva aspettare.

Il tenente Colombo e i suoi intercettori si lavorarono di becco tutti i ratti, forti del fatto di essere in numero superiore.
Beccarono, artigliarono e scagazzarono così copiosamente i ratti allo sbando che li costrinsero a una disordinata ritirata.
“Ci rivedremo!” disse Rattolomeo, pentendosi amaramente di quella battutaccia involontaria.
Scolo, ormai quasi svenuto, guardò Raf con occhi lucidi per il dolore e perse i sensi quando la cornacchia se lo caricò fra gli artigli e volò fuori.
Don Picciotto era appiccionato su un vassoio d’argento, sorretto da sei piccionotti in moto perpetuo. Indicò Jake la Nutria e gli lasciò il suo posto sul vassoio. Jake salì, portandosi il disco del Malandato e la copia della mappa che aveva anche Luca. Il Malandato doveva averne fatte molte, e tutte uguali. Chissà cosa significavano.
“Grazie, Don Picciotto, siamo in debito.”
“Certo” rispose il pennuto. Jake però si era reso conto che era piuttosto strano che i piccionotti sapessero che lui, Scolo e Raf stessero per lasciarci rispettivamente pellicce e piumaggio. Poi osò: “Don Picciotto, con rispetto, ma ci facevate seguire?”.
“Eh, certo. Io ho fatto un investimento aiutando la cornacchia e se l’investimento muore, mi dici dove se ne va la mia convenienza? I picciuttunazzi sono stati avvisati non appena i ratti hanno principiato a salire le scale. Ora però andiamocene, perché quelli torneranno. Lascerò qualcuno dei miei a pattugliare, ma fra poco arriverà il guardiano notturno e gli faremo capire che qui c’è bisogno di una derattizzazione.”
“Dove andiamo?”
“Andiamo a riposare sulla terrazza della Grande Punta, lassù, vicino al campo di grano. Poi, stanotte, faremo visita all’oracolo della Grande Punta. È un uccello del malaugurio, ma ci vede lontano.”


Capitolo 11
In cui qualcuno snutria nel nido del cuculo

Qualche ago di pioggia punse l'espressione severa di Anna. Giorgio scambiò uno sguardo d'intesa con l'uomo che lo accompagnava, Luca era stupefatto da quell'incontro.
“Piove. Luca, signorina... se vi va, potremmo proseguire questa conversazione sul nostro furgone, all'asciutto.”
“Abbiamo anche un thermos di caffè, e uno di tè” brontolò il compagno di Giorgio.
Luca e Anna valutarono la proposta, ma fu lei a decidere: “Va bene. Così ci spiegherete chi siete e cosa sapete su mio padre”.

Era un Fiat Ulysse nero, con i vetri oscurati, vecchio ma tirato a lucido. Quando montarono, Luca e Anna notarono che le due file di sedili posteriori erano state girate a mo' di salottino, e che l'interno del mezzo era vissuto, ma ordinato: una valigia aperta, con dei vestiti piegati con grazia all'interno; fogli e documenti impilati dentro vaschette di plastica; una macchina fotografica con teleobiettivo; due grosse tazze, una recitava “Il Mattino ha l'Orzo in bocca” e sull'altra, semplicemente, Lupo Alberto celebrava il papà migliore del mondo assieme a Enrico La Talpa.
“Scusate il disordine, ma questo è il nostro ufficio...”
“Siete poliziotti?” chiese Anna.
“Di un genere un po' particolare... Diciamo che di mestiere cerchiamo persone, risolviamo situazioni. Al momento, stiamo indagando sulla scomparsa dei barboni, appunto...”
“Mio padre... mio padre non è l'unico?”
“No” rispose Luca. Tutti si voltarono a guardarlo.
“Te n'eri accorto, Luca?”
“Sì, Giorgio. Da qualche mese, qualcuno dei nostri sparisce all'improvviso, e nessuno ci fa caso. Alcuni si spostano, perché comincia a far freddo, come le rondini. È normale. E poi per strada ci sono quelli che non sono come noi...”
“Cosa intendi?” chiese Anna.
“Credo che si riferisca...” rispose Giorgio “… agli stranieri, agli immigrati. Per strada ci sono loro, i barboni...”
“Non li chiami barboni. È dispregiativo.”
“Dispregiativo è far finta che non esistano, non il termine con cui li chiamiamo” sentenziò il compagno di Giorgio.
“Grazie... ma non voglio offenderla, signorina. Per strada ci sono i clochard, che l'hanno scelta a dimora, e quelli che i giornalisti chiamano migranti, che sono lì di passaggio. La maggior parte, perlomeno. I barb... i clochard sono radicati nel tessuto urbano, e quindi è usuale vederli circolare sempre nelle stesse zone, sempre negli stessi periodi. I migranti invece compongono un via vai, un flusso in divenire. In questa faccenda delle sparizioni, i migranti hanno confuso un po' le carte, diciamo...”
“Capisco. E voi come fate a essere certi che questi senzatetto siano spariti?”
“Perché, in qualche maniera, è come se fossero censiti. Nelle associazioni che se ne occupano, nelle mense, nei dormitori, qualche volontario ha notato l'assenza di uno di loro che gli stava particolarmente simpatico, o antipatico, e l'ha segnalata. Solo che queste segnalazioni sono diventate sempre meno sporadiche, fino a divenire costanti. Ed è stato allora, che siamo entrati in ballo noi.”
“Avete dei sospetti?”
“Non abbiamo la benché minima idea di che fine abbiano potuto fare. Niente. Abbiamo pensato all'omicida seriale, alle industrie farmaceutiche che potrebbero usarli come cavie, ai nazisti, agli alieni, abbiamo pensato che potessero esistere fessure nella città che li ingoino... ma non troviamo una traccia. Non una. Suo padre, il Malandato, è l'ultimo della serie, e siamo venuti a cercare Fermo perché abbiamo scoperto che si frequentavano... ma ora anche Fermo si è dato alla macchia. Certo che...”
La frase rimase sospesa nell'aria. La pioviggine isolava l'abitacolo dal mondo esterno, deformandolo attraverso i vetri. Anna attese, poi non resistette: “Certo che?”.
Giorgio scambiò di nuovo uno sguardo col suo compagno: “Certo che voi potreste esserci molto utili. Luca è un barb... un clochard, e conosceva il Malandato, lei è sua figlia: voi sapete quali fossero le sue abitudini, i suoi giri, i suoi contatti. Per voi, seguirne le tracce potrebbe essere più semplice... e poi noi siamo soltanto due, e comincia a essere difficile stare dietro a tutto, e a tutti...”
“E cosa potremmo fare?”
Tra le dita di Giorgio comparve un biglietto, con sopra un numero: “Questo è il mio telefono: innanzitutto potete tenerci informati, e poi potremmo condividere le informazioni. Per esempio, potreste provare a risentire Carcarlo, l'uomo che ha prestato il libro al Malandato...”
“L'hanno portato via” li informò Luca in tono grave.
“Certo, lo sappiamo. Gli hanno rifilato un trattamento sanitario obbligatorio all'ospedale di Niguarda. Se vi accompagnassimo là, potreste provare a risentirlo. Magari con voi si sbottonerebbe un po' di più...”

Li lasciarono sulla piazza bagnata antistante l'ingresso dell'ospedale. Luca e Anna attraversarono sotto lo sguardo delle statue di San Carlo Borromeo e degli Sforza, e oltre l'ingresso si diressero verso il reparto di psichiatria. L'ospedale Ca' Granda, una miscellanea di strutture antiche e moderne, tutte bianche nel grigiore di quella giornata, era accogliente, a suo modo, con i suoi viali verdi e la sua quiete tipica: ogni padiglione era accessibile, i più vecchi erano collegati tra loro da un camminamento coperto, e il tranquillo via vai di persone rifluiva dappertutto, tranne che nel reparto di psichiatria. Là, una porta chiusa elettronicamente impediva a chiunque di entrare o uscire senza controllo, soprattutto ai degenti di uscire, ma non si creda, anche agli esterni di entrare. Un infermiere stava in guardiola, a vigilare, e da una finestrella si poteva scrutare il reparto, che pareva come tutti gli altri ma non lo era, evidentemente. Luca era molto preoccupato: in quelle strutture spesso lo consideravano oggetto di studio, e da luoghi simili, nella vita, era sempre scappato. Meglio un divano sulla Martesana, per uno come lui. Anna, senza remore, suonò il campanello. L'infermiere fece scattare la serratura, ma uscì di persona a parlare con quei due visitatori, gettando uno sguardo sospettoso a Luca e ai suoi vestiti.
“Desiderano?”
“Siamo qui per visitare un amico... sarebbe mio padre, a dire il vero...” azzardò Anna.
Luca strabuzzò gli occhi: “Ma tuo papà non è il Malandato?”.
“Il Malandato è il marito di mia madre, Luca... ma mio padre è Carcarlo. Era l'amante di mia madre!” improvvisò goffamente Anna.
“Beh, allora, signorina, faccia internare anche sua madre. Comunque, Carcarlo non c'è.”
“Non c'è? Ma ci hanno detto che è ricoverato qui!”
“Infatti, è ricoverato qui, purtroppo. Ma il primario, sant'uomo, lo lascia andare in giro liberamente. Non è pericoloso per il prossimo, a parte quel suo vizio di parlare continuamente dei suoi libri, di quelli che ha perso, di quelli che gli hanno rubato... e poi balbetta. Non lo sopportava più nessuno, qua dentro. Oggi credo che sia a chirurgia oncologica, a mettere in ordine la biblioteca della saletta comune.”
“Grazie!”
“A non rivederci.”

E fu lì, che lo trovarono. Ripulito, sbarbato, in camice azzurro, Carcarlo stava inginocchiato davanti alla piccola libreria della sala in cui parenti e degenti stavano ancora conversando, durante l'orario delle visite. Carcarlo bisbigliava, parlava da solo, rifletteva sull'ordine dei libri che gli passavano tra le mani, e accanto aveva una valigia, anch'essa colma di libri. Gli scaffali erano stati vuotati, puliti e riempiti di nuovo, e i libri erano stati disposti per genere prima, e per autore poi. Carcarlo li coccolava come fossero cuccioli, come fossero una muta di cani di razza, come fossero pargoli.
“Ciao, Carcarlo...” esordì Luca.
“Ciao, Lu-Luca, ciao, ciao...”
“Buongiorno, signor Carcarlo”
“Bu-buongiorno, signorina...”
Carcarlo, però, non distoglieva lo sguardo dai suoi libri. A terra, ne aveva una pila, e quella sembrava convogliare tutta la sua attenzione.
“Sono la figlia del Malandato...”
Carcarlo si arrestò: “Mal... Mal... Maledetto! I miei Mis... Miserabili! C'era la storia, c'erano i luoghi, c'era la lettera... tutto è per-perduto, tutto!”
“Che cosa intende?”
“Il Malandato sa-sapeva. Lo sa-sapeva, c'era anche lui. Sapeva quanto va-valeva, per me, quel libro. Rubarlo... che vigliaccata! Infame! Infame!”
“Ma perché tiene tanto a quel libro?”
Carcarlo ammutolì, sbalordito, e guardò Anna come se avesse fatto la domanda più banale e ovvia e assurda che potesse: “Ma per-perché è uno dei miei!”.
Anna arrossì. Quasi si vergognava, sì, era evidente. Era uno dei suoi libri, e lui ci teneva. Anche lei teneva alle sue cose. E pure suo padre, il Malandato, teneva ai propri libri e ai propri dischi. Poi, chissà come le venne, chiese: “E quali sono, gli altri suoi libri?”.
Carcarlo sorrise, raggiante, dischiuse la valigia, e cominciò a impilarli, uno sull'altro, nominandoli senza balbettare: “Il conte di Montecristo, di Dumas! Il visconte dimezzato, di Calvino! Il barone di Münchhausen, di Raspe! Il barone rampante, di Calvino! Umiliati e offesi, di Dostoevskij! Cronache da Nessundove, di William Morris! Il padrone del mondo, di Verne! Il gatto con gli stivali, di Straparola...”
Anna osservò i volumi che l'uomo estraeva dal suo bagaglio: erano tutte vecchie edizioni, tranne quella de Il gatto con gli stivali, che era moderna, illustrata, per bambini, e stonava con tutto il resto. Fece una foto col cellulare alle coste dei libri impilati.
“Ma Carcarlo, perché avrebbe dovuto rubare il libro a te?” chiese Luca.
“Per-perché? Per ru-rubarmi il po-posto! Anche al re-refettorio, si sedeva se-sempre al mio po-posto! L'ha fa-fatto di nuovo!”
Carcarlo si innervosì. Il risentimento gli corrugava la fronte e gli zigomi, prodotto da autentica disperazione.
“Ma perché?”
“Perché? Perché? Perché è sparito lui e non io? Perché? Glielo chiederò, perché! Glielo chiederò! Lui è arrivato dopo di me! Perché?”
Anna tentò di calmarlo: “Carcarlo, non si agiti, noi non sappiamo niente, ci spieghi...”.
“Non c'è niente da spiegare. Non se ne pu-può parlare. Però potete cercare. Tra le mie cose. Don-Don Giuliano sapeva. Gliel'avevo detto che potevo sparire. Tutti possiamo sparire. Io sono già spa-sparito una volta, posso rifarlo. Gli ho detto, Don, se sparisco, e volete trovarmi, solo lei, Don, solo lei, nessun altro... guardi dentro questa scatola. La mia scatola. Ce l'ha Don Giuliano. Portategli questo...”
Era una copia sgualcita del Barone rampante, recante un piccolo stemma sulla prima pagina, un ex libris.
“Ma Carcarlo... ci dà un libro?”
“Ne ho tre, di quello. C'è il mio ex libris. Datelo al Don. Chiedetegli la mia scatola. È tutto lì. Anche il Malandato aveva capito. Solo io non riesco a capire... non riesco a capire perché sono ancora qui!”

La chiesa di San Martino, a Greco, non dista poi tanto dal Ca' Granda. Conoscendo le strade, può essere addirittura una gradevole passeggiata. Ci si infila in via Pianell, in via Comune Antico, si oltrepassano i binari e il cimitero, e ci si accorge di essere già arrivati. Quella passeggiata fu per Anna, che seguiva il passo sicuro di Luca, una piccola scoperta. Tante piccole scoperte. Innanzitutto, in tutto il trambusto di quella lunga mattinata, Anna non aveva ancora avuto modo di conoscere quel ragazzo. E di primo acchito, non avrebbe mai pensato che potesse essere lui, a guidarla, nemmeno per strada. Perché in fondo anche lei s'era fatta subito un'opinione di Luca, e quell'opinione era sbagliata, parziale, superficiale. Eppure, Luca aveva notato che suo padre non era l'unico senzatetto sparito, e aveva intuito che in fin dei conti il Malandato non avrebbe avuto motivo di rubare un semplice libro a Carcarlo. Inoltre, sembrava in gamba, nel suo ambiente: Luca si orientava benissimo per stradine che Anna non immaginava nemmeno esistessero, sapeva muoversi al riparo della pioggia seguendo quello che in gergo si definisce “l'ombrello dei cani randagi”, camminando rasente ai palazzi, o sotto i portici, avvertiva i pericoli del traffico, salutava delle persone come se fossero dei monumenti, come se fossero fisse su quell'angolo o quel portone. E quelle persone lo salutavano di rimando, col rispetto che si concede al vicino di casa, quasi che Luca non fosse un senzatetto. Luca parlava poco, ma sempre adeguatamente. Anna gli poneva delle domande, e dopo aver riflettuto, magari pure per qualche minuto, lui rispondeva, educato. In effetti, anche suo padre era stato un'eminenza accademica, un florido imprenditore, e ora era un semplice barbone. Chissà quante storie si nascondevano dietro quelle persone, si chiese. Poi, salendo sul ponte pedonale che attraversa la ferrovia a metà di via Comune Antico, Luca si volse a tenderle la mano, per superare dei gradini pericolanti, e Anna lo vide. Era nascosto, molto bene, ma non abbastanza per il suo occhio attento. Era là, mascherato, al riparo dalla pioggia e dalle ostilità, dalle assenze e dalle futilità. Era giovane, e determinato, e sicuro di sé, era pulito ma appariva sporco, era elegante ma sembrava trasandato, era bello ma non voleva risultarlo troppo, era intelligente, tanto da preferire sembrare stupido. Le porgeva la mano, e sbucò per un attimo fuggevole in un'espressione, in uno sguardo. Era dentro Luca, e se ne stava nascosto, perché il mondo l'aveva schiacciato, travolto, e l'unico rifugio l'aveva trovato là dentro.
E mentre Anna osservava la sua guida con quello sguardo nuovo, all'ospedale di Niguarda nessuno riusciva più a trovare Carcarlo. Puff: sparito!

A quell'ora, le nutrie avevano già giocato alla guerra e si stavano leccando le ferite, stremate. Luca giunse davanti alla chiesa, il Refettorio stava chiudendo, e chiese di don Giuliano. Don Giuliano stava assaggiando del vino novello con certi fedeli che lo portavano dal piacentino, ma fu felice di vedere Luca, in compagnia di una ragazza normale, poi!
“Ciao, Luca!”
“Buongiorno, Don.”
“Vedo che sei in compagnia...”
“Già. Lei è Anna, la figlia del Malandato.”
Se possibile, l'umore aureo sorretto da una fede ferrea del parroco si adombrò: “Oh... signorina... mi dispiace per suo papà...”.
“Perché?” chiese Anna.
Don Giuliano rimase spiazzato: in effetti, di cosa si dispiaceva, nello specifico? Che fosse un barbone, o che fosse sparito? Ma Luca, fortunatamente, non tergiversò: “Don, Carcarlo ci ha detto che hai una sua scatola, e che quella scatola serve a noi. Questo libro è il nostro lasciapassare.”
Don Giuliano osservò il volumetto, lo rigirò tra le dita, riconobbe il timbro con cui Carcarlo marchiava tutti i volumi della biblioteca che teneva in un carrello del supermercato rubato quando c'erano ancora le lire, e rispose: “Venite con me”.
Nella sagrestia non c'era nessuno, e c'era odore di incenso. Da una scrivania il parroco estrasse una scatola di latta, e sulla scatola, tra ammaccature e ruggine, emergevano il sottomarino Nautilus e il suo capitano, Nemo. La porse a Luca, che la passò ad Anna. Anna sollevò il coperchio, e dentro c'era soltanto una videocassetta, vecchia, vecchia forte. Sull'etichetta, con un pennarello, a mano, qualcuno aveva scritto: Laputa.
Salutarono don Giuliano, ringraziandolo calorosamente. Lui ricambiò con altrettanto calore, ma pure con la premura di tornare all'assaggio del vino novello. Mentre andavano via, aggiunse solo: “Buona fortuna, ragazzi. E non si preoccupi, signorina, è in ottime mani.”
Anna annuì, e riprese a camminare. Luca non sapeva che farsene, di una videocassetta registrata, senza copertina. Ormai, i lettori di VHS non si trovavano più nemmeno nelle biblioteche, e quello dell'oratorio aveva divorato, nel suo commiato suicida, Il pranzo di Babette.
“Mi dispiace, Anna... non so come vederla! Non ha nemmeno la copertina...”
“A che ti serve la copertina?”
“A vedere il film!”
“Come? Non ti preoccupare, Luca. Mio fratello è un hipster. Te lo presenterò. È un appassionato di oggetti e tecnologie vintage: pensa che nei suoi locali mette ancora la musica con i dischi in vinile! Ora lo chiamo, un videoregistratore ce l'ha di sicuro.”

Era vero. Giacomo Belotti aveva una saletta con una parete sgombera, su cui proiettava le videocassette sfarfallanti dal suo vecchio videoregistratore. A quell'ora, stava facendo il pisolino, prima di andare ad aprire i suoi locali. Lo smartphone era nel terrario, con I-Guana.
Fu lei a rispondere con un pollicione al messaggio di Anna che chiedeva: “Posso passare da te con un amico?”.


Capitolo 12
In cui facciamo una scoperta straordinaria

Don Picciotto era uno che ci sapeva fare, doveva ammetterlo.
Raf la cornacchia lo pensava mentre osservava le luci notturne di Milano che si agitavano sotto di lei in rivoli luminosi sempre più deboli, perché le ore degli umani si stavano facendo molto piccole e tutto si faceva fermo e buio. Erano sistemati comodamente in uno dei tanti rifugi cittadini che i piccioni avevano ricavato sul tetto di uno dei palazzi vicini alla Grande Punta. Raf ripensava alla violenta battaglia scatenata dai topi, alla ricerca del Malandato, all’occhio di vetro ritrovato, al significato della misteriosa mappa. Poi pensava a Scolo, che era stato ferito da quei brutti topacci e chissà se e quando si sarebbe ripreso. Ci teneva così tanto a lui… per questo lo stava aiutando.

Per tutte le nutrie, in che grosso guaio si erano cacciati!
Questo invece lo pensava Jake, che aveva ancora il cuoricino che batteva a mille per lo spavento. Dannati ratti! Era dispiaciuto, sentiva di aver coinvolto i suoi compagni in qualcosa di imprevedibile, e non sapeva come farsi perdonare. E poi chissà dov’era finito il suo amico Luca, se era anche lui in pericolo, magari sotto l’attacco di un’altra banda di ratti guerrieri… Si guardava attorno preoccupato, Raf era triste e aveva lo sguardo perso, Scolo era ferito e non si era ancora capito se fosse svenuto per il dolore o se stesse semplicemente dormendo per riacquistare le forze dopo la battaglia. Don Picciotto lo aveva fatto medicare con un intruglio a base di mollica di pane, acqua e guano medicale di cui era meglio non chiedere l’esatta provenienza.

Don Picciotto era l’unico che sembrava non scomporsi, li aveva difesi e portati lì in volo, e adesso se ne stava comodamente seduto su di una specie di trono costruito con sapienza e giovane bambù dalle zampette dei “piccioni designer”, un gruppo che aveva personalmente voluto ai suoi servigi per arredare il suo superattico in piazza Duomo, specializzati nel recuperare materiali d’avanguardia fra gli scarti di negozi e vetrine del centro città.
“Ragazzi” disse Don Picciotto infrangendo quell’angoscioso silenzio “siete troppo preoccupati.”
Raf e Jake lo guardarono, nei loro occhietti era racchiuso ciò che era appena stato detto loro.
“Sì, lo siamo” ammise Raf.
Jake la Nutria le fece eco scuotendo la testolina pelosa.
“Non dovete, almeno finché ci sarò io a proteggervi. Avrei potuto ordinare al Tenente Colombo di sterminare quella banda di ratti e altre mille come quella, ma la cosa che importava era portarvi fuori di lì, e in fretta.”.
Don Picciotto non perdeva mai occasione per sottolineare i propri meriti che, va detto, fino a quel momento erano indiscutibili.
“Che cos’è quel cartone quadrato che avete recuperato alla vecchia torre?”
Si riferiva al disco con la copertina nera e il prisma che scomponeva un singolo raggio luminoso in tanti raggi colorati.
“Una custodia. All’interno c’è un oggetto con cui gli umani ascoltano dei suoni” disse Jake.
“Un cerchio musicale? Noi li chiamiamo così.”
“Sì.”
“Me li ricordavo più piccoli.”
“Ci sono anche più piccoli, erano di moda qualche tempo fa e avevano soppiantato i più grandi, adesso vanno di moda i più grandi, che andavano già di moda ancora prima, insomma…”
“Tutto torna, sempre. Lo diceva Piccio della Girandola, un grande studioso di storia volatile del futuro, matematica senza operazioni e altre importantissime materie immateriali, e soprattutto bisnonno del nostro caro Piccioncino… È stata davvero una grave perdita, pace all’anima sua” disse Don Picciotto lanciando un’occhiata a Raf: era uno che non dimenticava facilmente i torti subiti. Lei deglutì lentamente dopo aver sentito pronunciare il nome di Piccioncino, perito sotto i colpi di uno stormo di sue amiche.
“Crediamo possa essere un indizio!” provò a dire Jake, colto da uno slancio improvviso di ottimismo: la sicurezza con cui Don Picciotto parlava era contagiosa, gli sembrava che anche l’impossibile fosse possibile.
“Spiegati meglio.”
“Abbiamo trovato la mappa, l’occhio del malandato e questo disco…”
“Non soltanto” disse Raf.
Don Picciotto la guardò come se la osservasse sotto le penne. Raf non arrossì soltanto perché era nera come la notte e la sua natura glielo impediva, ma la sensazione era quella.
“Quindi?”
“Jake, dammi una zampa a tirare fuori il disco” disse lei, e insieme sfilarono dalla custodia in cartone il vinile che vi era contenuto.
“Ci sono dei buchi, ma non li hanno fatti i topolini che hanno sgranocchiato i bordi, ce ne sono altri nel mezzo e sono regolari, precisi, senza sbavature. Pensiamo li abbia fatti l’umano che chiamano il Malandato, con un qualche attrezzo, una punta. E pensiamo abbiano un significato, perché questo disco, o cerchio musicale, ridotto così non può essere ascoltato, eppure lui lo conservava con cura in quel cassetto nella torre abbandonata, come se lo avesse nascosto.”
“E quale significato avrebbe un cerchio musicale pieno di buchi?”
“Non lo sappiamo”
Don Picciotto con un cenno dell’ala destra si fece portare dai suoi piccionotti fedeli servitori una torcia elettrica accesa e un fondo di bottiglia, rotto con maestria per ottenerne una specie di lente d’ingrandimento. Avvicinò il fascio di luce al vinile mentre due piccionotti fecero rotolare il vetro fra il disco e uno dei suoi occhi, che davanti a quel fondo di bottiglia si fece enorme come quello di un drago sputafuoco. Don Picciotto osservò con attenzione. Poi si mosse e spostò l’occhio dalla lente.
“Sono buchi fatti con criterio, da un umano che sapeva quel che stava facendo, avete ragione a crederlo. Ma soltanto l’oracolo della Grande Punta può dirci che significato abbiano e a cosa possa servire questo cerchio musicale.”
Don Picciotto mosse l’ala sinistra, uno dei servitori fece un cenno e il Tenente Colombo avanzò.
“Chiedi udienza all’innominabile.”
“L’imprescindibile?”
“Il solo detentore del malaugurio.”
“L’unico?”
“Lui.”
“Sua visione imperitura?”
“Lui, lui! Ci siamo capiti! Vai dall’Unicorvo. Riferisci che voglio essere ricevuto prima possibile. Si tratta di faccenda urgente e alquanto spinosa. Se si dimostrasse particolarmente pigro ti autorizzo a ricordargli i favori che ancora mi deve… e non sono pochi…”
“Vado!” disse il Tenente Colombo svolazzando nelle notte scura.
Raf e Jake si guardarono increduli. L’Unicorvo?, pensarono assieme. Ne avevano sentito parlare molte volte ma lo ritenevano un essere leggendario, avevano sempre creduto che vivesse nel regno della fantasia e delle storie che le genti animali si tramandavano di generazione in generazione.
“L’Unicorvo, avete capito bene” disse Don Picciotto, come se avesse letto i loro pensieri. “Vive proprio qui, sopra tutti noi. Quasi in cima alla Grande Punta. È l’unico che può conoscere la risposta. Una sola raccomandazione: quando saremo al suo cospetto non fissatelo. Mai! Per nessuna ragione al mondo!”
Poi, udendo un grido lancinante, si voltarono impauriti.

A quel grido ne seguirono altri due, ravvicinati. A emetterli era Scolo. Atroce dolore? Tremenda agonia prima di abbracciare la Grande Nutria? Ferita profonda e sanguinante? No. Niente di tutto questo. Semplicemente aveva avuto un incubo in cui lottava con un esercito di bottiglie di birra completamente vuote che avevano la forma di Rattoppato e Rattolomeo, e ogni volta che ne sconfiggeva una saltandoci sopra e provava a scolarne il contenuto era vuota! Poi gli faceva male la coscia, e si era accorto di trovarsi sul tetto di un palazzo e subito si era ricordato di soffrire terribilmente di vertigini.
Scolo si svegliò urlando, l’ennesima bottiglia del suo incubo era vuota, arida come un deserto.
“Aaah!”
Gli faceva malissimo la coscia destra che gli era stata morsa!
“Aaah!”
Era sul tetto di un palazzo! Le vertigini!
“Aaah!”
Poi si accorse che i suoi amici e Don Picciotto lo stavano guardando sbigottiti e si zittì, dissimulò indifferenza e fece loro un sorriso fintissimo.
“Ciao, vecchie lenze! Tutto bene?”

“Intravedo. Vedo. Stravedo.”
A parlare era l’oracolo, l’Unicorvo, il sapiente dei sapienti, il veggente dei veggenti, la verità delle verità. La voce era calma e pacata. Sembrava un comunissimo corvo, anche un po’ spelacchiato a dire il vero, e insignificante, che però portava sulla sommità della testolina, fra gli occhi scuri, un corno altissimo e perfettamente conico di un colore tra il bianco e il grigio; era vero, oppure falso, ma quello era. Forse era di carta o forse no, forse era un imbroglione o chissà. Insomma l’Unicorvo era una domanda vivente, un quesito volante, un interrogativo beccante. Era trascorsa più di un’ora dalla richiesta di udienza da parte di Don Picciotto, quando furono ricevuti ormai era notte fonda, che a guardarla per bene quasi si poteva scorgere in lontananza l’alba. Gli avevano mostrato gli indizi, lui li aveva studiati e poi aveva sgranato gli occhi per qualche minuto fissando nel vuoto davanti a sé. Erano nella piazza alla base della Grande Punta, tra le pozzanghere costruite dagli umani che di giorno spruzzavano getti d’acqua in aria, circondate dalle luci infisse nel terreno. Tutti erano rimasti ipnotizzati. Jake e Scolo, nonostante l’avvertimento di Don Picciotto, fissavano l’Unicorvo con insistenza.
“Secondo te è vero?” chiese Scolo a Jake.
“Cosa?”
“Il corno.”
“Zitto” disse Jake.
“Zitti!” sussurrò Raf.
“Muti state” disse Don Picciotto.
“Silenzio!” esclamò l’Unicorvo, “Intravedo. Vedo. Stravedo.” Al suo fianco c’erano altri due corvi, le sue guardie delle penne. “Una nutria prova a staccare una tromba dorata, ha già provato con tutte le altre, e ora insiste con quella… non demorde, animata da una ferrea volontà, un istinto ancestrale, come se si trattasse di questione di vita o di morte.”.
“Gentile oracolo, Unicorvo serenissimo, vostro e nostro incomprensibile enigma donato generosamente al cosmo intero, che significato hanno le misteriose visioni di cui ci parlate?” chiese Don Picciotto.
“Ma quali visioni e visioni? Giratevi” rispose l’oracolo.
Si voltarono. Dietro di loro una nutria stava armeggiando insistentemente con una delle strane architetture dorate disposte in cerchio intorno a un buco nel cemento che lasciava intravedere il piano interrato. Sembravano trombe, ma non lo erano. E quella nutria era… Pellicciotto Maculato Decimo!
“PM10!” chiamò Scolo.
La nutria si voltò. Li vide. Riconobbe due suoi simili, tra corvi, piccioni, e una cornacchia. Si avvicinò con passo baldanzoso.
“Bella zii” disse a Jake e Scolo.
“Che ci fai qui?” chiese Scolo.
“Volevo prendere una tromba nuova, la mia è da rottamare. Però queste non si staccano. Ma adesso vado, sono troppo stressato, il logorio della vita moderna mi distrugge, in questa zona ci sono un sacco di auto elettriche e non ho niente da ciucciare.”
Si intromise Don Picciotto. “Si può sapere che succede?”
“È un amico”
“Possiamo procedere? Li scusi, signor oracolo devotissimo, vastità universale, sono mortificato.”
“Intravedo. Vedo. Stravedo” disse ancora l’Unicorvo. “Gli oggetti che avete a me condotto sono un’unica cosa, lo sento, e la soluzione è in quel disco, nella copertina, nell’occhio e nella mappa. La luce vi rivelerà tutto.”
“Ma così siamo punto e a capo! Non si capisce niente di quello che dice!” si lamentò Scolo.
“Ssh!” lo riprese Jake con una zampata sulla pelliccia.
“E per finire, un avvertimento: chi mi fissa è un fesso” disse l’oracolo.
Distolsero lo sguardo, perché nel frattempo tutti, nessuno escluso, lo stavano fissando.
“Oh raga, guardate qui, se mi ci metto sopra con la bocca aperta mi si vede dentro?” chiese PM10 spalancando le fauci nutriche sopra uno dei faretti che da terra facevano luce verso l’alto.
“Ma certo!” rispose Raf la cornacchia.
“Lo sapevo! Fico!” disse PM10 staccandosi.
“No! Intendo dire ma certo, ho capito cosa dobbiamo fare! Datemi l’occhio e tutto il resto! La luce!”
Raf si fece aiutare da due attoniti Jake e Scolo. Pose l’occhio del Malandato sul faretto e subito la luce si amplificò aprendosi a raggera e la Madonnina fatta inserire nella pupilla venne proiettata nel cielo che lentamente stava rischiarando. L’alba era prossima, dovevano sbrigarsi. Ecco cosa significava la copertina del disco dei Pink Floyd! Soltanto che al posto del prisma la luce doveva passare attraverso l’occhio! Jake la Nutria ebbe un’altra intuizione, che a chiedergliene ragione non avrebbe saputo spiegare con parole nutriche, né ora né mai. Sfilò il disco dalla custodia e lo avvicinò all’occhio, appoggiandocelo delicatamente sopra.
“Scolo, aiutami, mettiamo il centro del disco esattamente sopra al centro dell’occhio.”
“D’accordo. vecchia lenza, mi piace questa faccenda, mi sembra di essere in un film!”
Scolo zoppicando aiutò Jake a posizionare il disco con precisione, il foro centrale in corrispondenza della minuscola Madonnina incastonata nella pupilla dell’occhio.
Un fascio di luce con la statuina si stagliò nel cielo come un laser.
Dagli altri buchi nel disco uscirono ancora raggi che si allargavano salendo.
“Wow!” disse PM10.
“La mappa!” esclamò Raf.
Don Picciotto gliela porse con gentilezza e uno sguardo languido. Scolo si ingelosì all’istante ma c’era pur sempre qualcosa di molto più importante a cui pensare in quel momento, per cui ebbe soltanto il tempo di emettere uno sbuffo di antipatia fra i suoi dentoni da nutria.
Raf spiccò il volo con la mappa fra le zampe, la posò sul disco e... incredibile! I raggi di luce che passando dall’occhio e filtrando attraverso i buchi nel disco incontravano la superficie della mappa corrispondevano esattamente ad alcune delle X segnate sulla carta! I buchi nei dischi del Malandato componevano la mappa e indicavano le X… Il Malandato aveva inventato un sistema ingegnoso per poter riprodurre la mappa! Ma perché? Restavano ancora molti misteri da risolvere. La luce dell’alba arrivò a sfumare ciò che fino a poco prima era distintamente proiettato nel cielo scuro. La vita degli umani stava per riprendere il suo solito inspiegabile percorso, e loro dovevano andarsene da lì.
“Intravedo. Vedo. Stravedo” disse ancora l’Unicorvo. “L’umano con un occhio solo sa come stanno davvero le cose. Un grave pericolo incombe. I dischi vi diranno cosa e dove cercare. Fatevi aiutare da lui” disse, e indicò con un’ala spelacchiata in direzione di PM10. “Quella nutria è come me, ha il potere di vedere le cose oltre le cose.”
Tutti guardarono sbigottiti Pellicciotto Maculato Decimo, che nel frattempo zampettava tranquillo verso la Foresta Dritta.
“Te l’avevo detto! Non è un imbroglione!” disse Scolo a Jake. “Andiamo!”.
“E dove?”
“Non hai sentito l’Unicorvo? PM10 lo sa! Dobbiamo seguirlo!”


Capitolo 13
In cui qualcosa comincia ma non finisce

Nero. Tremore. Poi luce. Nel videoregistratore a casa di Giacomo il nastro frusciava, sulla parete erano proiettate delle figure. Ridevano, si stringevano la mano. Era una situazione ufficiale, ma la videocassetta era quasi smagnetizzata, l'immagine era molto sbiadita. Molto sbiadita. La prima persona a parlare fu un prete, ma non si capiva niente, perché l'audio gracchiava come una cornacchia. Presentava qualcosa, una manifestazione, uno spettacolo. Le ombre, la cui testa veniva disegnata da una silhouette alla base della proiezione, seguivano con attenzione. L'immagine, man mano che scorreva il nastro, si fece più nitida. Entrarono in scena due guardie, strattonando un terzo uomo. Una delle guardie gracchiò: “Padre! Abbiamo fermato questo balordo, un senzatetto, in possesso di candelabri e crocifissi d'oro: dice che voi glieli avete regalati!”.
Il prete osservò con autentica delusione l'uomo, pestato e in ginocchio, con i polsi legati, che aveva accolto la sera prima in casa propria e l'aveva ricambiato col furto degli ori: aveva una benda sull'occhio, e qualcosa di familiare nella postura.
“Ma quello...”
“Quello è...”
“Ehi, ma quello è il Malandato...” disse Luca.
“Papà!” esclamò Anna.
“Papà che recita?”
La guardia riprese: “Sappiamo che non è così, padre, e le abbiamo riportato il bottino trafugato da questo ladro!”.
Il prete fissò in volto la guardia: “Quest'uomo si chiama Jean Valjean, e io stesso, ieri sera, gli ho fatto dono di queste poche cose d'oro”.
Le guardie guardarono offese l'uomo di chiesa, e poi l'uomo chiamato Jean Valjean, si voltarono con stizza e uscirono di scena. Quindi il Malandato Jean Valjean si levò in piedi, baciò le mani del suo benefattore e questi disse: “In verità, in verità ti dico: io ti offro il regno dei cieli. A te, a tutti gli umiliati, e offesi. Non avrai bisogno di rubare niente, perché Dio provvederà a...”.
E qui il VHS si inceppò. 
[NOTA PER I LETTORI: ANCHE IL CAPITOLO SI È INCEPPATO, MA RIPRENDERÀ NELLA PROSSIMA PUNTATA…]


LA STORIA CONTINUA: TROVATE IL TESTO DELLA PRIMA PUNTATA QUI:
DELLA SECONDA QUI:
DELLA TERZA QUI:
E QUI I CAPITOLI LETTI DAGLI AUTORI:

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Un format di narrazione condivisa di Valeria Ravera
Con Riccardo Besola, Andrea B. Ferrari e Francesco Gallone
In collaborazione con la libreria Covo della Ladra - Ladra di Libri
Illustrazioni di Guendalina Ravazzoni
Musiche di Alessandro Arbuzzi
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Supporto tecnico di Giorgio Paolo Albani
Dal vivo: 21 marzo, 4 e 18 aprile, 9 e 23 maggio, 6 giugno 2018 (ore 19), al Binario 9 e ¾ della Libreria Covo della Ladra, Milano
Sul web: www.strastorie.it e facebook.com/strastorie


1 commento:

  1. Nascosto dietro a una colonna, Flambé aveva assistito allo scontro tra i ratti, le nutrie e la cornacchia, indifferente agli assalti e ai rivolgimenti di fronte, quasi ridendo sotto i baffi per tutto quell'agitarsi. Un felino non sarebbe mai sceso così in basso! Però, quando era arrivato Don Picciotto con la sua ghenga, la sorpresa del gatto era stata grande, e il suo compito si era complicato. Come avrebbe fatto a ritrovare quelle stupide nutrie? Don Piccciotto aveva basi ovunque, nessun angolo di Milano era inaccessibile per lui... Flambé avrebbe dovuto fare ricorso al suo asso nelle vibrisse. Giocarsi quella carta era molto pericoloso, ma non aveva alternative. Il tempo della verità era arrivato.

    LUCIO

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