Capitolo 15
Fratello Manganello
Il gigante, illustrazione di GAL e basta |
Alla
Certosa del Garegnano, lunedì, quasi sera
Jonathan Thoughts ha visto molto in vita sua, forse tutto, e ha guardato molto spesso dentro all’occhio dell’abisso. L’abisso, contrariamente a quanto si possa pensare, non è mai stato in grado di scalfire né la sua mente, né il suo cuore.
In questo momento, però, la mente e il cuore di Jonathan Thoughts non girano come al solito.
Non compongono, insomma, quella coppia così affiatata che generalmente è sempre stata in grado di portarlo fuori dalle acque più insidiose e torbide in cui gli sia capitato di navigare.
La mente di Jonathan Thoughts sta cercando affannosamente di trovare il senso della polaroid portata da Rafe’ e, soprattutto, di comprendere se ha fatto bene a mandare Nino in avanscoperta, dividendo di fatto il gruppo in tre tronconi. L’unione fa la forza è un detto spesso abusato, un luogo comune, però è proprio dei luoghi comuni essere molto frequentati e citati per qualche valido motivo. Quindi, pensa il buon Jonathan, dividerci è stata una solenne fesseria.
Anche se, dalla sua, Jonathan Thoughts ha molte attenuanti per quella decisione.
In primis Denali e Ettore, per i quali muoversi velocemente da Corvetto fino al Garegnano con questa pioggia continua di tutte le lordure di Milano sarebbe stato praticamente impossibile. E poi, in vista di possibili agguati dei corrugati, non sarebbe stato prudente tenere insieme Nino e Zao, perché il cinesino ha un sacco di roba dentro al suo tablet e, se le cose si dovessero mettere male, sarebbe meglio che qualcuno riuscisse a salvare la ghirba per cercare di salvare il salvabile.
E la città stessa.
Così, Jonathan Thoughts, Zao e Toni, arrivano in viale Certosa con un po’ di ritardo rispetto a Nino e s’incontrano con Denali, Ettore e Fabietto che si riparano sotto il ponte della Ghisolfa.
«Come è andato il viaggio passando dal centro?»
«Un deserto. Non c’era anima viva. Probabilmente questa tempesta sta scoraggiando la gente e nessuno mette fuori il naso. Io e Fabietto abbiamo usato un paio di ombrelli mezzo scassati che abbiamo trovato nella spazzatura. Ettore ha dormito tutto il tempo.»
«I tubi e i muri?»
«Non saprei, di tanto in tanto sentivamo dei rumori fortissimi, come esplosioni, e i tubi corrugati spuntavano dai buchi nel terreno. I muri mi sono sembrati fermi, come se stessero aspettando qualcosa» risponde Denali con il volto tirato.
«Io qualche tubo l’ho seccato con la fionda. Quelli a tiro, intendo. Sono duri. Quando li beccavo barcollavano, sembravano storditi e si giravano verso la parte da dove arrivava il sasso. Non sono vuoti. Dentro pareva gli si muovessero dei cavi. Quasi la lingua di un serpente.»
«Bravo Fabietto, interessante questa cosa dei tubi. Noi ne abbiamo trovati molti che hanno tentato di bloccarci, ma la tempesta sembra impaurirli. Forse non sono invulnerabili. Anch'io ho visto i muri fermi, come se la loro crescita si fosse bloccata. Penso che abbiano fatto come il bruco che, dopo l’attività e il gran mangiare, si ferma e inizia a imbozzolarsi per la metamorfosi.»
«Bene, bravi. Però papà mio è solo e non sappiamo come se la passa ’mo. Che facciamo? Andiamo?»
Zao guarda Toni, comprende la sua preoccupazione per il padre e accende il tablet. Controlla qualcosa, non è dato sapere cosa, poi spegne e punta il dito verso la Certosa del Garegnano.
«Andiamo, allora!» urla Jonathan Thoughts, cercando di sovrastare il rumore del vento che si è alzato e spinge la tempesta di ogni sorta di rifiuti e rottami fin sotto al ponte della Ghisolfa.
La truppa si muove in direzione della Certosa di Garegnano e, riparandosi alla meglio sotto ai balconi, sente crescere dentro la paura. Quella che toglie il fiato, che fa tremare i polsi e trasforma la testa in un leggerissimo palloncino pieno di elio.
Il chiostro della Certosa è un punto al centro della tempesta.
Tutt’intorno, la città è vittima di un turbinio che sta montando sempre di più, sempre più forte e che forse ha deciso di strapparla tutta fin dalle fondamenta, rimescolarla come un frullato o un milk shake, dipende dai gusti, e rovesciarla nel catino dove stava prima come fosse un bicchiere colorato di un fast food.
Il centro del ciclone, invece, è calmo. Un uomo dalla pelle nera vestito da frate impugna un manganello fatto con un tubo corrugato e con mosse da ninja fronteggia un omino piccolo e magro, tutto baffi e nasone, che ha al suo fianco una cornacchia con il becco duro come il marmo della Certosa ma nero come la notte.
Da dietro gli archi del chiostro, compaiono via via, come tessere di un domino o come una serie di ologrammi, altri frati. Tutti con il saio, tutti con un manganello di corrugato, si dispongono attorno al frate nero e all’omino con i baffoni e il nasone.
La cornacchia si agita e inizia a saltellare qua e là in cerchio attorno al suo compagno, spiegando le ali in modo nervoso, nell’intento di sembrare più grossa e minacciosa.
«Statti calm’, Rafe’» dice Nino, muovendo appena le labbra sotto i baffi. «Siamo finiti in trappola e ce la dobbiamo cavare da soli.» Poi si rivolge a Fra ’Ntoio: «Tu si’ Fra ’Ntoio come io song Fra’ Tuck di Robin Hood. Però se mi vulite vattere, fatevi sotto che vi fra ’ntumo con ’sti mmane, strunz!»
Rafe’ sgracchia una risata e aspetta gli ordini di Nino.
«Dovevate essere di più!» urla il presunto Fra ‘Ntoio. «Peggio per te.»
Nino tiene le labbra chiuse, tira fuori dalla tasca il mazzo di chiavi di casa e impugna quella lunga della porta blindata come un coltello da pirata. Poi stacca il moschettone e lo infila come un tirapugni rudimentale sull’altra mano.
Rafe’ gli si mette alle spalle, in modo da provare a fronteggiare il circolo dei frati.
Fuori dalle mura della Certosa si sentono esplosioni in lontananza, e i lampi di luce illuminano la madonnina con la corona di stelle che sta sulla sommità della facciata della chiesa madre.
A questo punto, dopo un segnale del frate nero, tutti gli altri guerrieri della Certosa si mettono a girare sempre più veloce intorno a Nino e a Rafe'. Non c’è partita, sono troppi e Nino lo sa. Come sa che se vuole salvare la pelle sua e le penne di Rafe’ deve tenere duro e difendersi fino all’arrivo di Jonathan Thougths e degli altri.
Il primo assalto è rapido come la puntura di una vespa. Un ronzio sempre più vicino, sempre più vicino, poi la gragnuola di colpi.
Nino mulina la chiave e il moschettone come può, ma non riesce a intercettare le botte dei frati che, dopo averlo avvolto come una catena di filo spinato, si allontanano per ritornare nella formazione iniziale. Un cerchio di finti frati che riprende a girargli minaccioso intorno.
I manganelli di corrugato hanno segnato il corpo di Nino. Il naso gli sanguina copiosamente e bagna il pavimento della Certosa.
Lui tossisce, sputa e affida la sua anima a Santa Tecla e a San Gennaro, per non sbagliare. Poi, conscio del fatto che sia Fra ’Ntoio, il frate nero, quello da colpire per mettere fine al massacro, ordina a Rafe’ di alzarsi in cielo: «Rafe’, vattenne e fa chiù burdello che puoi».
Per coprire la manovra di Rafe’, Nino decide di giocare d’anticipo e, con una mossa al limite del suicidio, si scaglia contro Fra ’Ntoio, il pugno rinforzato con il moschettone ben in evidenza che si dirige dritto per dritto sul grugno del frate. L’altro resta fermo, ma all’ultimo momento disegna un semicerchio con la mano sinistra e glielo afferra.
Nino se l’era preparata quella mossa, infatti fa perno sul pugno bloccato da Fra ’Ntoio e mulina un fendente con la chiave della porta blindata verso il bersaglio grosso del suo avversario.
Quello che Nino non ha messo in conto è che il saio del frate sia stato fabbricato con una particolare plastica estratta dal processo di riciclaggio dei tubi corrugati e che lo rende grossomodo resistente come un’armatura.
Fra ’Ntoio gira il braccio di Nino e lo blocca con una presa al collo.
«Adesso arrenditi e dacci i backup della pendrive con i video e tutto il resto.»
Nino sputa, e capisce perché li avevano attirati in quella trappola. Poi una sagoma più nera della tempesta e molto più veloce dei lampi che illuminano la Certosa si scaglia in picchiata contro Fra ’Ntoio. Rafe’ lo colpisce con precisione chirurgica al braccio che sta strozzando Nino, liberando il collo del suo amico che reagisce dando al frataccio una gomitata alle parti basse. Lui, nonostante il saio rinforzato, sembra accusare il colpo e con il fiato spezzato dal dolore lascia andare Nino che si rimette in posizione di difesa, pronto a fronteggiare l’imminente attacco del cerchio infernale formato dai finti frati.
Rafe’ si rialza in cielo, nonostante volare gli costi ormai una fatica del diavolo, e si allontana verso viale Certosa, come risucchiato da una corrente d’aria incontrollabile.
Jonathan Thoughts è fermo con Denali e gli altri sotto la pensilina del tram e cerca a fatica di avanzare dentro la tempesta.
Ettore sta ancora dormendo e Denali è un po’ preoccupata, di solito il bimbo è una trottola, invece da quando è iniziata questa tormenta sembra soporoso e poco reattivo.
A un tratto Jonathan Thoughts si sporge dalla pensilina e alza il braccio sinistro come un falconiere di una rievocazione medievale.
Rafe’ si posa e Jonathan si ripara di nuovo sotto la pensilina.
«Rafe’, dov’è papà?» chiede Tonino.
Rafe’ gracchia, cerca si alzarsi in volo, ma Jonathan lo tiene fermo. Poi fa di nuovo quella strana cosa di fissare la cornacchia negli occhi e risponde al posto suo: «“Papà è in pericolo e noi andiamo a salvarlo. Adesso. Forza, seguitemi”».
Capitolo 16
Milanesi te salutant
Certosa del Garegnano
Nino sa quel che ogni combattente di strada sa: la maniera migliore di affrontare uno scontro è evitarlo. Ma lui è circondato da una schiera di frati ninja armati di manganelli di corrugato e cattiveria. Butta un occhio alla bicicletta, l'altro all'uscita. È l'unica: solleva la chiave e tenta un affondo nel muro di sai, trova la guancia di un frate, che accusa il colpo e rovina a terra, Nino tenta di sgusciare fuori dal cerchio attraverso quella piccola breccia però qualcuno gli fa lo sgambetto e casca anche lui, ma in effetti è fuori dallo schieramento nemico, si spinge coi piedi, annaspa con le mani, spezza le unghie sul terreno, e una pioggia di mazzate gli si scarica sulla schiena, il corrugato ripieno di pesanti cavi fa male, gli taglia il respiro, non ce l’ho fatta, si dice, non ce l'ho fatta, è finita...
Il Piaggio Porter si infila a tutta velocità dall'arco di ingresso, sterza, inchioda, si ferma di traverso, apre il portellone laterale e da lì Toni, Zao e Fabietto scagliano una grandinata di vasi da fiori pieni e vuoti contro i ninja dell'Ordine di San Michelangelo Tartarughense. Alla guida del microfurgone sta, ripiegato su se stesso perché troppo lungo per l'abitacolo, Jonathan Thoughts, con accanto Denali che stringe a sé Ettore. Il furgone l'hanno rubato davanti al Cimitero Maggiore, al chiosco di un fiorista, l'unico mezzo in grado di muoversi nella città bloccata poiché poco più grosso di uno scooterone.
«Papà! Siamo venuti a prenderti!»
«Toni...»
Mentre Zao e Fabietto proseguono il lancio di settembrini e crisantemi, Toni si avventa verso Nino, che arranca in mezzo ai frati spaesati dai cocci scagliati dal nemico. Come nei film sul Vietnam con Chuck Norris, Toni si passa un braccio del padre attorno al collo e lo solleva, corrono e si buttano sul pianalino del Porter, verso la salvezza, vai!, Jonathan pesta l'acceleratore e sgomma in direzione dell'arco da cui sono entrati ma Fra ’Ntoio gli si para di fronte, gli intima di fermarsi con una mano alzata e SBAM!, Jonathan lo investe, il frate («Ma è un finto frate?» chiede Denali e Jonathan risponde: «No, li conosco, sono tonache deviate del Vaticano, sicuramente in combutta coi nostri nemici, chiunque essi siano») accusa il colpo però riesce ad afferrarsi a quel furgone minuscolo, reggendosi ai lati del parabrezza con le sue mani possenti, e prende a testate il vetro incrinandolo, e allora Jonathan richiama all'appello Rafe' che stava riposando dietro coi ragazzi poi senza fermarsi si dirige verso viale Certosa, Rafe' prende il volo uscendo dal portellone posteriore del furgone in corsa, plana, inverte la rotta, si appoggia sulla testa del frate e col becco comincia a ferirgli il volto, gli occhi, quello molla una mano per agguantarlo, Jonathan ne approfitta per fare una brusca manovra, e finalmente Fra ’Ntoio rovina a terra e rimane una macchia nello specchietto retrovisore.
«Grazie, uagliù!» dice Nino con voce malferma, poi si rivolge a Jonathan: «Non ho trovato niente...»
«Non c'era niente da trovare, era una trappola, sciocchi noi a lasciarci portare così fuori strada, sciocco io a dividere il gruppo... però adesso siamo di nuovo tutti insieme, troviamo un posto sicu...»
Ed è allora che lo vedono.
Che li vedono.
Sorgono dal terreno. Hanno un che di ancestrale, nel portamento, e qualcosa di demoniaco nell'opacità che pare avvolgerli. Il primo è alto come un palazzo di tre piani, poi ne scorgono due più piccoli, e nonostante le numerose bizzarrie a cui hanno assistito tutti negli ultimi giorni, ora sono completamente terrorizzati.
«Cosa sono?» chiede Denali, stringendo più forte Ettore al petto.
Jonathan, per la prima volta, non ha una risposta, non ha una battuta, non ha la solita sfacciata e quasi ingenua sicumera. Continua a guidare fino al cavalcavia Bacula, e là sterza a destra perché ne sorgono altri, proprio sul loro percorso. Giganteschi. E li seguono. Puntano a loro.
Il più grosso per ora è un colosso antropomorfo alto circa venti metri, composto all'apparenza da nervature di corrugati intrecciati. Da quella che sembra una bocca escono spessi cavi elettrici tentacolari, che si agitano e brulicano, creando una strana barba colorata che ricorda la chioma della Medusa. Camminando, il gigante si porta dietro gli alberi che incontra, sradicandoli dal terreno e lasciandoli a terra come militi caduti.
Il Piaggio Porter prosegue la marcia, ma il suo equipaggio tutto fissa sbalordito i propri inseguitori. Al Gigante Corrugato vanno ad affiancarsi, a destra e sinistra, due gemelli più bassi, il Gigante Asfalto e il Gigante Cemento. Asfalto è nero e bituminoso, sembra quasi unto, Cemento è grigio e ruvido. I loro movimenti paiono rallentati, però è solo perché sono grossi.
«Non credo sia possibile. Stiamo sognando o siamo morti. Non può essere possibile. Non c'è spiegazione per...»
Fratella Paternoster prova un'eccitazione quasi intima mentre osserva quei golem colossali muoversi attraverso la città. Sa che sono reali, che sono fisici pur se invisibili a molti, che sono una figurazione, forse soltanto una metafora di quello che anche lei sta contribuendo a creare. Si lascia andare a una risata malvagia, una di quelle risate da film, sguaiate, baritonali. Dalle Tre Torri, osserva e si dice che è stata una buona mossa quella di mettere le cimici da Teresio Dei e riuscire così a seguire la strana banda dell’emissario del Consiglio delle Metropoli Coscienti, dopo l’incontro con l’avvocato. Essere previdenti è per lei una fonte di grande piacere, ma i golem lo sono di più. Anche camuffarsi è una cosa ce le dà piacere, così l’eccitazione sale mentre ripensa a sé in guisa di vecchia gattara che gabba la cornacchia per inviare all’emissario del Consiglio la polaroid avvelenata. Alla Certosa avranno trovato quello che gli spettava. I frati ninja del Vaticano sono sempre stati una certezza. Con una mano si sfiora, lei sola dentro la stanza e tutto il caos fuori.
L'uomo dalla pelle scura che le giunge alle spalle non è quello che si aspetta. Fra ’Ntoio si sta ancora leccando le ferite per strada. Quest'uomo invece giunge silenzioso, compare dall'ombra, con un lungo abito africano, una bella fantasia non troppo sgargiante, occhiali a specchio e un lungo bastone: «Sembra contenta, signora, di tutto questo. È contenta?».
A Fratella Paternoster l'orgasmo va di traverso, trasale, si volta, vede l'uomo: «Chi è lei? Come è arrivato qui?».
«Nello stesso modo in cui lei è riuscita a giungere al Consiglio. Nessun essere umano era mai venuto lì. Lei ha profanato un luogo mistico.»
«Il Consiglio... lei è... lei è una città!»
L'uomo sorride.
«Cosa vuole da me?»
«Che la smetta.»
«Di fare che cosa?»
«Tutto questo.»
«Non sono stata io a evocare i golem...»
«Oh, questo lo so bene, perché so molte cose che lei non può nemmeno immaginare. Io voglio che la smetta di fare del male a Milano.»
«Chi dice che sia male?»
«Milano.»
«Ma non sono io. È un sistema. Tutto il mondo va in questa direzione. Io sono soltanto un ufficiale di alto grado in un esercito. Posso smetterla, anche se non voglio, però dopo di me verrà un al...»
La testa di Fratella Paternoster rotola a terra, troncata di netto a metà del collo. L'uomo rimane un attimo interdetto. Un altro uomo dai tratti orientali pulisce il sangue da una spada.
«Osaka...»
«Dakar.»
«Osaka, stavo cercando di risolvere...»
«Risolto.»
«Sappiamo entrambi che non è così.»
Osaka fa spallucce.
Jonathan Thoughts sprona il furgoncino allo stremo, e nonostante sia totalmente concentrato sulla guida risponde ai dubbi di Denali: «Un po' hai ragione, e un po' no... questi mostri sono reali, ma al contempo sono talmente irreali che l'occhio umano mediamente non li percepisce...».
«Quindi... li vediamo solo noi?»
«Noi e qualcun altro... ma tra i qualcun altro includi i pazzi, i visionari, i sognatori, i bambini... tutti quelli che non vengono creduti quando la loro verità non combacia con la norma. Inoltre... Maledizione!»
Di fronte al piccolo furgone si staglia all'improvviso uno scorpione enorme di vetro e acciaio. Jonathan preme il freno, il mezzo sbanda, si inclina, perde l'assetto e si ribalta su un lato. L'equipaggio viene sballottato e si ammacca ancora un po'. Denali avvolge Ettore col proprio corpo, e quando il Porter finisce di strisciare a terra, apre la portiera e arranca fuori. Emerge col busto, si guarda attorno e riconosce lo stadio di San Siro. Anche il portellone laterale dietro di lei scorre, lasciando uscire Fabietto e Zao, Rafe' in un battito di ali, e poi Nino sostenuto da Toni. Denali guarda Jonathan: sembra dormire, ma un rivolo di sangue gli scorre sulla fronte. Poi lei solleva lo sguardo e li vede, tutti attorno: il Gigante Corrugato, il Gigante Asfalto, il Gigante Cemento e lo Scorpione Vetro e Acciaio. Li circondano. Si sente inerme, Denali, minuscola, guarda i suoi compagni e si chiede perché lei, perché loro, perché finire così. È chiusa dentro qualcosa che non ha pareti ma non lascia scampo.
«Che sfacimme...»
«Tonino... le parole... ci sta la signora...» rimprovera Nino. Si sente come quella volta che l'hanno allacciato, brutta storia, aveva il borsone con tutta la refurtiva e s'era trovato la polizia di fronte, i carabinieri di dietro e un vigile urbano che passava per caso di fianco. Non poteva sfangarla. E ora quei mostri attorno a loro, immobili, senza emozioni apparenti, sembrano i monumenti funebri della sua esistenza. Non ce la faranno. Non pensava che sarebbe finita così, assurdamente, lui è un ladro di case in un quartiere popolare, in cui la vita tutti i giorni assomiglia un po' a se stessa, con le piccole gioie e le piccole disgrazie, dove i mostri di cemento mica vengono a minacciarti di schiacciarti e spazzarti via...
«Toni, fatemi una cortesia, tu e i ragazzi: prendete a Denali e alla creatura e fuggite. Io cerco di raccattare a Jonathan, ma qui ci sta poco da fare...»
«No, papà. Noi stiamo con te.»
Poi un rumore proveniente dal furgone li interrompe. Jonathan, una maschera di sangue, si è svegliato. Emerge dal furgoncino ribaltato e salta sullo spiazzo.
«Come stai, Jonathan?»
«Poco importa. È ora di finirla. State dietro di me, e cerchiamo di portare la pellaccia a casa...»
Quindi estrae da chissà dove un’ascia che sembra antica. Fabietto lo guarda sconcertato: «Pensi di salvarci con quella?».
«Questa è l'ascia di Belloveso, fondatore di Milano. È un oggetto primigenio, pieno di potere!» ribatte lui, e poi urla: «Con me!» e si mette a correre verso i Giganti. Dal Corrugato lunghi cavi si scagliano contro Thoughts, che a colpi d'ascia trancia e tronca, sempre avanzando in quel turbine di serpi di rame e plastica. La compagnia lo segue, armata degli attrezzi da giardiniere recuperati nel Porter del fiorista. Denali pensa solo a proteggere Ettore.
Lo spiraglio sembra sempre più vicino, Jonathan guida i suoi verso le gambe dei Giganti, l'idea è di sgusciare oltre e poi correre, correre, correre… Quando questo piano diviene evidente per tutti, però, la coda uncinata dello Scorpione scatta e si pianta nel terreno, tagliando la strada al gruppo. L'ascia di Jonathan colpisce, ma non urta. I giganti gli si stringono attorno. Non hanno scampo. E allora Ettore si mette a ridere.
Nino, Zao, Fabietto e Toni si voltano, guardano il poppante ridacchiante e colgono lo strano pallore sul viso di Denali. La coda dello Scorpione incombe sulle loro teste, ma quella risata ormai attira tutta la loro attenzione. Anche Jonathan smette di tirar fendenti. E Denali perde la pazienza.
«Cosa cazzo volete da noi!»
Denali sbraita con tale forza che bufera e giganti sembrano accusare l'onda d'urlo. Lo Scorpione ritira la coda, disincastrando l'uncino dal terreno. I cavi del Corrugato brulicano un po’, il Gigante emette un rumore, una sorta di verso grattato e sordo che pare una risposta. Jonathan tende l'orecchio e spiega: «Dice che non vogliono voi. Vogliono me».
Lei annuisce, e urla di nuovo: «E allora lasciateci andare!».
Questa volta il verso sembra una risata.
«Dice che è troppo tardi...»
D'improvviso, il maglio del Gigante Cemento si abbatte su Jonathan Thoughts, la coda dello Scorpione minaccia come una grossa frusta la combriccola e il Corrugato afferra Denali, che urla, Nino fa appena in tempo a recuperare Ettore che lei gli lascia scivolare fra le braccia mentre il Corrugato la solleva sopra la testa, all'altezza di un quarto o quinto piano, la tiene avvolgendola di cavi elettrici e fibra, per la testa e per il bacino, sembra volerla strappare a metà, e Denali guarda a terra, i suoi compagni malconci e suo figlio che adesso piange perché vuole la mamma, e piange anche lei, e una lacrima le corre lungo il viso mentre pensa a Marco ed Ettore, a tutto quello che sarebbe potuto essere, in questa sua vita nella città che sembrava averla accolta, e la lacrima scorre e cade, dal quarto o quinto piano, e brilla, e tocca il terreno, e per un istante è silenzio.
Jonathan è in ginocchio, ma vivo e intero. Si sostiene sull'ascia di Belloveso poggiata a terra, e pronuncia parole che sembrano una piccola preghiera, una formula magica. Un'invocazione che ha a che fare con la città, con il sangue di un padre, con le lacrime di una madre. Su questo si fonda la vita, su questo si fonda la Storia. E il rombo diventa potentissimo.
La Fornace Curti sembra un vulcano. Ovunque, la terra trema. Il Gigante Mattone sorge.
È immenso, assemblato da migliaia di mattoni arancioni, belli, nuovi che sembrano stare assieme come per una magia. Un sortilegio di malta e forza che anima questo mastodontico essere le cui mani ricordano più un palazzo di edilizia residenziale pubblica che arti.
Da via Walter Tobagi allo stadio di San Siro ci sono quasi cinque chilometri, ma il Gigante Mattone ci arriva in qualche passo, nemmeno il tempo che Fabietto ci mette a tirare una fila di sassi al Corrugato che li imbriglia con i suoi cavi e li rispara proprio davanti ai suoi piedi, come una raffica di mitra d’avvertimento.
«Fabie’, nun te piglia’ scuorno. Mo’ ce penz’ iss!» urla Nino, indicando un gigantesco agglomerato di mattoni di forma vagamente antropomorfa.
«Il Difensore! Ce l’abbiamo fatta!» grida Jonathan Thoughts e lancia l’ascia di Belloveso contro il Corrugato, tagliando di netto i cavi che imprigionano Denali. È libera.
Libera di cadere da un’altezza che le sarà fatale.
Il Gigante Mattone si sporge in avanti e afferra Denali con un ditone grande come un SUV di media cilindrata. L’appoggia fra Jonathan Thoughts e i suoi e punta dritto verso i nemici.
Milano, o per lo meno la maggioranza degli umani che le vive dentro, è chiusa in casa per ripararsi dalla pioggia mefitica che si è appena attenuata, ma che non consente ancora di mettere il naso fuori dalle finestre, quelle di casa o quelle dei devices fa poca differenza.
Così nessuno si accorge delle centinaia di bimbi che pigiano i loro nasi, più o meno smocciolenti, sulle finestre delle loro camerette o dei salotti e delle cucine, mentre mamme e papà guardano serie televisive in streaming o fanno interminabili riunioni di lavoro in cui decidono, grossomodo, solo quando fissare la call successiva.
Nessuno fa caso a loro, ma loro fanno caso a tutto e assistono, per la prima volta dal vivo, a quanto i loro genitori hanno visto per anni davanti alla tivù nei lunghi pomeriggi invernali.
Fuori c’è una battaglia che sembra un cartone animato, però nessuno potrà raccontarla, tanto sono tutte fantasie.
I bambini, dietro alle finestre, aspettano l’arrivo della Paw Patrol, oppure le scariche elettriche dei Pokemon e le invasioni dei Gormiti, invece hanno il privilegio di seguire una gigantesca battaglia fra i mostri del male contro il difensore del bene. È come una puntata di Mazinga Z, o di Jeeg Robot d’acciaio, a San Siro, sul piazzale dove la domenica sciamano i tifosi dell’Inter o del Milan e dove i tram incrociano le proprie traiettorie come fanno in cielo i proiettili di mattoni, cemento, cavi e vetro.
È un’emozione che non si può neppure spiegare. Si rischierebbe di perdere la magia. Così i bambini guardano in silenzio, qualcuno sgranocchia dei cereali al cioccolato, e i genitori, straniti da tanta quiete, s’intristiscono un poco. Stanno crescendo, si dicono. Peccato, solo qualche mese fa ci chiamavano di continuo.
Il Gigante Mattone spara mattoni a raffica dalle dita delle mani e dei piedi in tutte le direzioni e cerca di fiaccare, tenendoli a distanza, i quattro rivali che faticano a trovare un’intesa per sferrare un attacco coordinato in grado di metterlo in difficoltà.
In quattro contro uno non ci sarebbe partita, ma è l’unione che fa la forza, e per ora si tratta più di una serie di singolar tenzoni che vedono come unico protagonista il Gigante Mattone.
Mattone sradica da terra un intero tram numero 16 e lo usa come una specie di mazzafrusto per colpire con un unico fendente Cemento, Asfalto, Corrugato e lo Scorpione di vetro e acciaio.
I quattro indietreggiano, e l’ultimo troncone del 16 riesce a colpire la coda dello Scorpione, incrinandola quel tanto sufficiente a far perdere l’equilibrio al mostro. Scorpione finisce per impennarsi come una moto senza controllo che mulina le zampe stridenti nell’aria per non finire ribaltato sulla schiena.
Il tram numero 16 viene arpionato da Cemento e Asfalto, mentre Corrugato con i suoi cavi imbriglia Scorpione per fargli ritrovare l’equilibrio. In atto c’è una specie di tiro alla fune, ma la fune è un jumbo da svariate tonnellate con i vetri in frantumi e le giunture di acciaio che stridono come gli ingranaggi di una fabbrica con sede all’inferno.
Jonathan Thoughts, Nino, Denali e i bambini hanno trovato riparo dietro un pullman parcheggiato vicino allo stadio, ribaltatosi per la battaglia in atto. Le porte sono aperte, i finestrini sfracellati e la moquette è lorda della pioggia mefitica.
«Jonny bello» dice Nino, che ha preso Rafe’ e se l’è infilato sotto all’ascella «spiegami ‘nu poco ‘sta cazz ‘e storia.»
«Quale storia, Nino?»
«Quella dei mattoni.»
«Nino, i mattoni li hanno inventati nel 3000 a.C. o forse pure prima. Li facevano con fango e paglia e…»
«Jonny, ma che né? Mi pigli per il culo? Ti pare ‘o momient? Giù la testa!» Nino si getta sui bambini e su Denali, che ha Ettore in grembo, per schivare uno dei pantografi del 16 che ha deciso di volare proprio dalle loro parti.
«I mattoni, quann’ è cominciato tutto ’stu burdell’, se ne venivano su dall’asfalto a culo di cane. Poi si sono fatti muri e tutti ci pensavamo che erano qualcosa di incontrollabile, un dato di fatto, che ne so, pure la jella ner’. Poi, quando ci siamo conosciuti, dopo che i ragazzi mi hanno liberato da quel grandissimo fetentone dell’Assessore, a casa mia, ci siamo guardati la chiavetta sul marchingegno ’e Zao e le linee rosse, me le ricord’ buono ’e linee rosse, hai detto che erano la mappa dei muri che stavano salendo per il piano dell’Assessore e degli amici suoi di far tornare la schiavitù e conquistare Milano. Però, quann’ abbiamo fatto la sorpresa all’avvocato pe’ mannarl’ dal Sindaco, mi pare che i mattoni non erano più tanto cattivi e che il problema era diventato il progetto della città nuovissima che era pure ’na fetenzia chiu’ gruossa assaje ’e quell’ dell’Assessore.»
«Vieni al dunque, Nino: che cosa vuoi sapere? Il tempo sta scadendo, il Gigante Mattone è in difficoltà».
«Papà, ho paura.»
«Noi pure, signor Nino!»
«Uaglioncell’, non prendetevi paura, che in un modo o nell’altro ne veniamo fuori. Si esce pure dal gabbio, figuratevi se non ce la caviamo qui che non ci stanno manco le guardie.»
I bambini ridono. Poco, ma almeno per qualche minuto Nino è convinto di averli calmati. Denali è impietrita. Stringe Ettore al petto, come a volerselo rinfilare in pancia, per essere sicura di non fargli vedere tutta questa follia.
«Jonny, i mattoni da che parte stanno? Lo sai o sei andato a caso peggio di noi?»
«Nino, le linee rosse sulla chiavetta non erano i disegni dei muri di mattoni, ma i disegni dei muri che l’Assessore avrebbe fatto ergere per il suo piano e i suoi cantieri. Solo che i mattoni arancioni, quelli di cui è fatto il gigante qua sopra di noi, si erano messi evidentemente a crescere dove avrebbero dovuto sorgere quelli dell’Assessore. Noi, io, non lo avevo capito. Non subito. Poi ho scoperto che la città stava reagendo. Milano aveva saputo prima di noi del piano dell’Assessore e forse anche quello della massoneria deviata. Così ti torna?»
«Poco, ma me l’agg a piglià pe’ buona. Comunque se il gigante Mattone è dei nostri, credo che siamo davvero nella merda. Guarda lì.»
«Basta parlare, fate qualcosa!» urla Denali, poi si accascia come un sacco vuoto, mentre Ettore si riaddormenta, nonostante sia di fronte alla fine del mondo.
Cemento, Asfalto, Corrugato e Scorpione di vetro e acciaio hanno iniziato a unire le forze, come se avessero compreso con un po’ di ritardo che l’asfalto porta linfa al cemento che regge i grandi grattacieli di vetro e acciaio e che a far comunicare tutte queste entità ci pensano i cavi contenuti dai corrugati.
I quattro stanno bersagliando Mattone con auto, cavi che gli sferzano il volto, schegge di vetro e stilettate di acciaio e con lastre di cemento pressato che si gli si conficcano nelle enormi cosce, all’attaccatura delle spalle e nel mezzo del poderoso petto.
Mattone cade in ginocchio e quasi schiaccia il pullman dove sono rifugiati Jonathan Thoughts e i suoi, alza lo sguardo verso lo stadio di San Siro, la cui sagoma è coperta dai mostri che stanno per sconfiggerlo e barcolla sotto i colpi che non si interrompono.
Tutt’intorno una cortina di fumo dovuta alle auto esplose e in fiamme e ai cavi dell’alta tensione saltati fa sembrare l’aria un veleno e il cielo un’infinita sabbia mobile che invischia tutto nelle proprie spire fino a soffocare ogni alito di vita.
«Ragazzi, vi fidate di me?»
«No, sì. Cra. Insomma, va bene, sì. Cra» fanno gli altri in coro.
«Grazie per la fiducia.»
«Capisci il momento, Jonny bello. È strizza, non mancanza di fiducia.»
«Hai ragione, Nino. Zao, prendi il tablet fotonico e dallo a Fabietto.»
«Ma il tablet è mio.»
«Non ti preoccupare, te ne ricompro uno domani. Se arriviamo a domani.»
Fabietto prende il tablet, lo soppesa e guarda Jonathan Thoughts.
«Fabio, che oramai sei grande, tiralo a Corrugato. Non gli devi fare male, tiraglielo facile, in modo che se lo prenda nelle spire.»
«Agli ordini.»
«E noi?» chiede Denali.
«Noi andiamo dentro.»
«Dentro dove?»
«Dentro lì. Tira, Fabio. E corri con noi!» grida Jonathan Thoughts indicando un’apertura nella schiena del Gigante Mattone.
Fabietto, che è affezionato al suo soprannome, così come alla sua fama di infallibile cecchino, usa il tablet come un frisbee e lo lancia morbido fra le spire di Corrugato.
Il mostro afferra il tablet, lo guarda, se lo ingoia come fosse un gamberetto o una cozza e prosegue nella sua battaglia.
Intanto il gruppo s’infila nella schiena del Gigante Mattone.
Dentro, Jonathan Thoughts spiega il piano alla sua squadra.
«L’unione fa la forza. Quindi uniamoci per dare più forza al nostro gigante. Zao, vai su di là e prendi i comandi della testa. Porta con te Toni e Fabio, uno per la sua abilità strategica e l’altro per la sua mira, mentre tu, Denali, vai al cuore. È inutile che ti dica perché. Rafe’, tu vai agli occhi e restiamo in contatto. Io andrò alla mano sinistra e porterò con me l’ascia di Belloveso.»
«E io, Jonny bello? A ‘ro vagg?»
«Tu, Nino, vai alle palle. Che più palle di te non ne ha nessuno. Andate e vedrete che capirete.»
La squadra si muove velocemente dentro i cunicoli che compongono il Gigante Mattone e ognuno trova un alloggiamento, una specie di nicchia, per infilarsi comodamente. Dai mattoni spuntano due manopole che ricordano i joystick delle vecchie console anni Novanta. Ciascuno, come mosso da una volontà superiore, prende in mano le due cloche e viene percorso da un’energia che non aveva mai pensato di avere prima. Persino Rafe’ mette le sue zampe dentro due fessure in un mattone e si accorge che al gigante che lo ospita spuntano delle enormi ali di cotto.
Denali posa Ettore in una piccola culla di mattoni e quando il bimbo è al sicuro il cuore di Mattone diventa incandescente, come e più della fornace Curti.
Toni, Zao e Fabietto sono concentratissimi e studiano insieme il modo migliore per vincere quella partita.
Jonathan Thoughts prende possesso della mano sinistra di Mattone che si trasforma in un’ascia uguale a quella di Belloveso, ma grande un centinaio di volte in più.
I quattro mostri restano un po’ spiazzati da quei cambiamenti e paiono in difficoltà. Poi Corrugato inizia a menare fendenti con le sue spire fatte di cavi, però qualcosa non va.
Una gragnuola di colpi si abbatte sullo Scorpione e lo manda letteralmente in frantumi.
Lo Scorpione è fuori gioco e brucia come un cerino dopo aver acceso una sigaretta.
«Hai visto, Zao? Il sacrificio del tablet è stato utile. Corrugato se lo è ingoiato, e il tuo tablet fotonico lo ha mandato in tilt» dice Jonathan Thoughts con una voce che ricorda quella degli altoparlanti degli ipermercati. «E adesso, ognuno faccia del suo meglio!» grida.
Nino parla per primo. «Coraggio, uaglio’. Adesso Toni e voialtre creature ci dite che dobbiamo fare.»
«Papà, un piano ce l’avremmo.»
«Caccialo, Toni.»
«Dobbiamo saltare più in alto possibile, spiegare le ali e scendere in picchiata contro i tre mostri rimasti come i kamikaze. Ci vogliono cuore e palle. Ma alla fine scartiamo di lato e con la mira di Fabietto e la forza dell’ascia possiamo menare una botta accusi gruoss’ che ci tagliamo le teste a tutti e tre. Zao ha calcolato che dobbiamo alzarci in volo fino a sopra il terzo anello. Ci state?»
«Sì. Cra.» Stavolta tutti molto convinti.
«Allora andiamo.»
I bambini alle finestre vedono un gigante di mattoni con delle ali pesantissime spiccare un salto in alto che pare impossibile. Il gigante spiega le ali, si ferma nel cielo, cambia direzione e si fionda fulmineo verso i tre mostri rimasti che, ebeti, gli tirano addosso di tutto, ma le auto, i lampioni e perfino i vagoni del tram ormai non gli fanno più niente.
Mattone va oltre la velocità della luce, o almeno i bambini così credono, e praticamente sta per schiantarsi contro gli altri mostri, quando fa una virata improvvisa e con la mano diventata una specie di ascia decapita di netto le teste ai tre mostri che si scontrano uno con l’altro ed esplodono in uno strano fungo nel cielo, fatto di polvere, cemento e plastica fusa.
Da dietro il fumo, spunta il Gigante Mattone che fa qualche passo per uscire dalla cortina di polvere e schifezze varie e mentre cammina inizia a perdere pezzi.
Cadono migliaia e migliaia di mattoni e dopo qualche minuto del gigante non resta più niente.
Anzi, a ben vedere, i bambini alle finestre scorgono delle piccole sagome.
Sono tre ragazzini, una donna che stringe al petto un bimbo poco più che neonato, un tizio strano che sembra un barbone e un signore magro magro con due baffoni neri sotto a un naso così grosso che si distingue anche dai piani più alti.
Intorno a questa strana combriccola, vola una cornacchia nera con un cappello in testa. E l’incredibile tempesta che si era abbattuta su Milano pare essersi finalmente placata.
«È ora di cena» sentono gridare i bambini che, controvoglia, come quando devono lasciare i loro tablet o la televisione, sbuffano e vanno verso la cucina per mangiare.
L'eccitazione è ancora alta, quanto hanno visto è stato troppo entusiasmante e così reale che nessuno riesce a stare fermo a tavola.
Piano piano, però, la routine della cena prende il sopravvento e l'indifferenza degli adulti, che sembrano non essersi accorti di niente, inizia a insospettire i bambini.
Se fosse stato tutto un sogno? Un bellissimo sogno, ci mancherebbe, ma comunque qualcosa da lasciare nella fantasia, sarebbe una delusione enorme.
Magari, però, è come nelle serie televisive, che sembrano finire ma in coda hanno sempre la pubblicità della nuova stagione.
Sì, probabilmente è così.
Fuori dalla finestra, domani, ci sarà sicuramente un nuovo episodio.
Una nuova puntata.
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